di Giuseppe Costa – Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche, Università degli Studi di Torino; Angelo d’Errico – Servizio Sovrazonale di Epidemiologia, ASL TO3, Regione Piemonte; Michelangelo Filippi – Servizio Sovrazonale di Epidemiologia, ASL TO3, Regione Piemonte; Dario Fontana – Servizio Sovrazonale di Epidemiologia, ASL TO3, Regione Piemonte; Roberto Leombruni – Dipartimento di Economia e Statistica “Cognetti De Martiis”, Università degli Studi di Torino

“Vuoi vivere a lungo e in salute? Non smettere mai di lavorare!”. Questo è l’incipit del Dataroom di Milena Gabanelli pubblicato sul Corriere della Sera del 15 maggio 2023, che ha il merito di richiamare l’attenzione su un aspetto molto importante nel dibattito su lavoro, pensioni e aspetti legati alla salute (fisica e mentale) della popolazione, sempre più anziana. La questione, in sintesi è: allungare la carriera lavorativa, oltre l’età pensionabile, fa bene, fa male o non fa niente alla salute?

Per bilanciare l’aumento dell’aspettativa di vita verificatosi negli ultimi decenni nella maggior parte dei paesi sviluppati, molti governi hanno innalzato l’età pensionabile legale o hanno inasprito i requisiti per la pensione, riducendo o eliminando le possibilità di pensionamento precoce. Quindi, è importante stabilire se l’età al pensionamento abbia un effetto positivo o negativo (o nessuno) sulla salute fisica e mentale dei lavoratori nel periodo post-pensionamento.

Riguardo alla salute mentale, le principali revisioni della letteratura sono concordi nel dire che dopo il pensionamento diminuisce il rischio di depressione e migliora il livello di benessere mentale, mentre per la salute fisica le prove a favore di un effetto positivo o negativo appaiono miste e non conclusive.

Nello studiare questo fenomeno bisogna tenere conto che i lavoratori che continuano a lavorare in età più avanzata sono in media più sani di quelli che vanno in pensione prima (si tratta del ben noto effetto “lavoratore sano”). Infatti, lo stato di salute è un fattore importante che un lavoratore considera quando decide se ritirarsi o no dal lavoro, e diventa ancora più rilevante in quelle mansioni caratterizzate da lavoro fisico intenso e da esposizione a fattori di stress organizzativo, come elevata ripetitività, alti ritmi e lavoro su turni. Se non si tiene conto delle differenze nello stato di salute già esistenti al momento del pensionamento, tutti gli studi come quello recensito dimostreranno che chi continua a lavorare sta meglio di chi va in pensione, una differenza che preesisteva e non può essere attribuita al passaggio o meno dal lavoro al pensionamento.

Per ovviare a questo problema, molti studi hanno impiegato un disegno quasi-sperimentale, sfruttando cambiamenti nell’età pensionabile determinati da mutamenti legislativi, che essendo indipendenti dalle decisioni dei lavoratori e dalla loro salute preesistente permettono di confrontare lo stato di salute (o la mortalità) tra lavoratori su cui la riforma delle regole pensionistiche ha avuto un diverso impatto. Tuttavia anche questo tipo di studi, che pur sono quelli più solidi dal punto di vista metodologico, hanno trovato risultati contraddittori tra loro, con alcuni studi che hanno mostrato un effetto benefico, altri un effetto dannoso, altri nessun effetto sulla mortalità e sull’incidenza di malattie cardiovascolari, che sono la principale causa di morte in Italia e nei paesi sviluppati.

La definizione dei nessi causali è quindi questione complessa da definire e stimare, e lo studio citato nel Dataroom, a detta degli stessi autori, non si prefigge questo scopo: “Questo studio ha utilizzato dati trasversali aggregati e pertanto non è possibile effettuare inferenze causali” (Kachan et al., 2015; p. 4). Si tratta dunque di uno studio che, per le sue caratteristiche metodologiche, non può apportare alcuna conoscenza sulle conseguenze sulla salute della diversa età di pensionamento.

Il dato scientifico andrebbe mostrato al pubblico in tutte le sue sfumature, evitando semplificazioni che sono buone per assecondare tesi accattivanti per la comunicazione (come quella che in fondo sarebbe meglio continuare a lavorare), ma che sono poco utili per aiutare il pubblico a farsi un’opinione valida; in questo modo tra l’altro si rischia anche di rafforzare quel sentimento di delegittimazione che la scienza vive in questa fase storica agli occhi del pubblico.

Per il lettore che vuole approfondire la letteratura scientifica sull’argomento, consigliamo alcuni titoli esemplificativi delle divergenze che esistono sull’argomento trattato, su cui basiamo il nostro commento:
– Odone A, et al., Does retirement trigger depressive symptoms? A systematic review and meta-analysis. Epidemiol Psychiatr Sci. 2021; 30: e77.
van der Heide I, et al. Is retirement good for your health? A systematic review of longitudinal studies. BMC Public Health. 2013; 13:1180.
– Hernaes E, et al. Does retirement age impact mortality? J Health Econ. 2013;32(3):586-98. Hagen J. The effects of increasing the normal retirement age on health care utilization and mortality. J Popul Econ. 2018;31(1): 193-234.
– Ardito C, et al. To work or not to work? The effect of higher pension age on cardiovascular health. Ind Relat 2020; 59(3): 399-434.
– Hallberg D, et al. Is an early retirement offer good for your health? Quasi-experimental evidence from the army. J Health Econ. 2015; 44:274-85.
– Bozio A, et al. Impact of later retirement on mortality: Evidence from France. Health Econ. 2021;30(5):1178-1199.
– Kuhn A, et al. Fatal attraction? Extended unemployment benefits, labor force exits, and mortality. J Public Econ. 2020; 191: 104087.
– Behncke S. Does retirement trigger ill health? Health Econ. 2012, 21(3): 282-300.

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