Inaspettatamente sono tornati nelle nostre città gli indiani metropolitani. Non in tutte le città, ma solo in quelle universitarie. Sono gli studenti accampati pacificamente nelle loro tende canadesi di fronte alle sedi universitarie per protestare contro il caro affitti. Non vogliono cambiare il mondo, almeno per ora, come i loro variopinti predecessori, ma solo poter permettersi una vita universitaria decente. Si tratta di un malcontento giustificato oppure della protesta capricciosa e folcloristica di studenti e studentesse di sinistra che non hanno voglia di studiare, come sembra pensare il ministro del (de)merito Valditara? La questione ha molti aspetti, come spesso accade. Alcuni sono in superficie e quindi perfettamente visibili, mentre altri sono più profondi.

Intanto il caro-affitti per i fuori sede risponde alle leggi bronzee dell’economia del liberismo nostrano. Negli ultimi anni gli Atenei hanno fatto a gara per accaparrarsi gli studenti secondo una logica meritocratica fatta di classifiche nazionali e internazionali. Se ci sono queste classifiche lo studente fuori-sede sceglie gli Atenei che risultano posizionati più in alto. Ecco allora che si è verificata una forte domanda verso alcune sedi con il conseguente aumento degli affitti.

Le persone si muovono velocemente, non così l’edilizia. Questa situazione di carenza di alloggi e conseguente aumento dei prezzi ha colpito pesantemente anche gli studenti del mio Ateneo. Quanto gli Atenei si fanno concorrenza per attirare gli studenti dovrebbero mettere in campo anche delle adeguate politiche abitative, ma questo risulta difficile perché i fondi necessari sono ministeriali. Quindi si verifica il paradosso che l’Ateneo può vantare l’incremento di iscrizioni come indice di successo, ma gli studenti devono pagare affitti molto più costosi.

Qualcuno di fede liberista potrebbe dire che l’affitto elevato è il prezzo della qualità: se vuoi laurearti in un Ateneo prestigioso paghi un premio aggiuntivo e così il discorso si chiude. Il famoso diritto allo studio viene dopo perché non risponde alle leggi del mercato.

Fin qui l’economia con la sua legge della domanda e dell’offerta che regola anche il mondo degli alloggi universitari. Personalmente credo però che la tendopoli studentesca indichi un disagio ben più profondo. La protesta per il caro affitti nasconde probabilmente la frustrazione per la precarietà alla quale la società italiana condanna il laureato dopo aver conseguito il titolo. Una precarietà professionale fatta di contratti brevi e poco remunerativi che durano molti anni. Scontato che la posizione del laureato non è più quella di assoluto privilegio sociale ed economico di alcuni decenni fa, tuttavia la situazione italiana è oggi particolarmente negativa.

Come esempio che mi è noto, basta considerare la condizione di un laureato in Giurisprudenza che voglia diventare avvocato. In genere la laurea, ora quinquennale, viene conseguita con un anno o due di ritardo. Poi comincia la ricerca del necessario tirocinio di 18 mesi dove, se va bene, si viene gratificati economicamente con un modesto rimborso spese. Infine c’è da affrontare l’esame di stato per l’esercizio della professione. Anche qui i tempi sono molto dilatati e se tutto va bene le procedure concorsuali si concludono in un anno. Se si viene promossi si può iniziare la professione a 28/29 anni. Nel frattempo i costi sono stati sostenuti dalla famiglia o con dei lavoretti. Poi la professione non offre subito le rosee prospettive economiche di un tempo, almeno stando alle statistiche.

Questo destino colpisce non solo l’aspirante avvocato ma molte altre figure professionali che la legge mette in un limbo di precarietà di lungo corso. La situazione peggiore è quella degli aspiranti insegnanti, condannati ad un lungo ed estenuante precariato. Ecco allora che in contesto così demotivante anche la questione del caro affitti diventa cruciale: perché pagare così tanto per ottenere così poco? Con le conseguenze anche sociali di questa precarietà di lungo corso. Il declino demografico dell’Italia può dipendere anche dal fatto che la sistemazione professionale definitiva delle nostre laureate arriva molto tardi, sicuramente dopo i trenta anni. Qui la distanza con l’Europa è veramente notevole.

Qualcosa si è fatto per sanare questa situazione francamente insostenibile e moralmente indecente. Come sempre all’italiana, cioè con pie intenzioni ma con scarsi risultati concreti, almeno finora. Un passo importante è stato fatto con il decreto del governo Conte del luglio del 2022 che prevedeva per alcune professioni, finalmente, la laurea abilitante sull’esempio della laurea in Medicina. Con questo sistema il laureato guadagna almeno un anno di tempo perché l’accesso alla professione diventa immediato. L’odontoiatra, lo psicologo o il farmacista quando si laurea può subito esercitare la sua professione senza dover praticare un inutile tirocinio perché già compreso nel percorso di laurea. Un sistema da estendere anche a tutte le altre professioni regolamentate per far guadagnare tempo e denaro ai giovani. Invece è accaduto l’opposto. Non mi risulta, almeno per le lauree che conosco, che si sia andati avanti con l’attuazione di questa legge e l’estensione a tutte le professioni è ostacolata dalle solite lobby corporative che non vogliono perdere il potere acquisito sui meccanismi di accesso alla professione.

Quindi, al di là dei necessari interventi in campo edilizio, ma molto lunghi nei tempi di attuazione, il governo Meloni potrebbe, per iniziare, offrire ai pacifici indiani metropolitani il robusto ramoscello d’ulivo delle lauree professionalizzanti per tutti. Avrà la signora Meloni questo autentico coraggio riformatore? Non credo, ma la protesta studentesca potrebbe piegare molte resistenze corporative, sortendo esiti inaspettati e molto positivi per l’economia e la società italiana. Per ora gli indiani metropolitani sono pacifici ma aspettano risposte adeguate dal mondo della politica, e in generale da quello degli adulti. La situazione è sicuramente in evoluzione.

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