Domani, trascorsi ormai più di tre anni dall’inizio della persecuzione giudiziaria ai suoi danni, Patrick Zaki si recherà nuovamente nella città di Mansura per prendere parte, da imputato, al processo che lo vede accusato del reato “orwelliano” di diffusione di notizie false per aver scritto la verità.

La verità è la discriminazione subita dalla minoranza religiosa cristiano-copta nell’Egitto di al Sisi, del cui colpo di stato del luglio 2013 ricorre quest’anno il decimo anniversario.

Lo studente egiziano dell’Università di Bologna, sopravvissuto a 22 mesi di carcere preventivo durissimo, è ora intrappolato in un processo che, nonostante sia iniziato un anno fa, pare ancora fermo in una fase preliminare: ciascuna udienza è durata pochissimo ed è terminata con un rinvio non appena l’avvocata di Zaki ha osato eccepire sulle prove dell’accusa, chiesto documentazione. In termini più semplici, ha cercato di esercitare un diritto elementare, quello alla difesa.

Intorno alla vicenda di Zaki, progressivamente, l’attenzione è calata: come se, con la scarcerazione del dicembre 2021, fosse terminata l’urgenza. In parlamento non si parla più della cittadinanza onoraria, il governo Meloni dà l’aria di accontentarsi di inverosimili rassicurazioni fornite dalle autorità egiziane, la storia fa meno notizia. Ma Bologna, la città che ha adottato Patrick e dove lui vuole tornare, continua a non mollare. Questo pomeriggio alle 18 in piazza del Nettuno l’Università, le autorità cittadine, Amnesty International e le altre organizzazioni della società civile torneranno a chiedere la fine del processo con una sentenza di assoluzione e il ritorno in città di quello studente brillante, curioso ed entusiasta cui tutti avevano iniziato a volere bene.

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