di Carmelo Zaccaria

La rappresentazione del male è stato uno dei temi più ricorrenti del genio artistico di ogni tempo. L’arte spesso ritrae proprio la stortura, la perfidia, il torbido si trovano tracce nella letteratura, nella musica, nella pittura, nel furore di Medea, nello strazio di Guernica, nella spietatezza di Lady Macbeth. Il male assoluto, irriducibile, di ghiaccio è raffigurato in Anton Chigurh, il killer del racconto Non è un paese per vecchi di Cormar McCarthy, che affida al “testa o croce” la casualità della sua mattanza. Nel finale, inseguito dalla polizia, rimane vittima di un violento incidente d’auto che avrebbe stroncato anche una quercia. Tuttavia riesce a medicarsi da solo sul marciapiede e poi a fuggire, a dileguarsi, mezzo sciancato, ma ancora vivo, in attesa di ricomparire, quando meno te l’aspetti, fresco come una rosa, più crudele e pretenzioso di prima inorgoglito dal terrificante clamore che ruota intorno alle sue gesta nefaste. E’ come se il male fosse sempre in mezzo a noi, dentro di noi.

La guerra, da questo punto di vista, ha sempre rappresentato un’irrimediabile sciagura, esempio orrendo del male assoluto. Il suo passaggio inonda fiumi di lacrime e cosparge lande sconfinate di insopportabili obbrobri. La guerra, nei suoi torti e nelle sue ragioni, persino nei suoi disperati rimpianti per ciò che si sarebbe potuto fare e non si è fatto per scongiurarla amplifica il male, lo realizza e lo chiarisce, per così dire, nella sua devastazione più ripugnante, estrema. Non c’è peggiore sventura che partecipare a una guerra, come quella in atto fra Russia e Ucraina, la cui forza dirompente sta nell’accecare gli occhi e comprimere i cuori dei belligeranti affinché non si accorgano che la corda che stanno tirando si è già spezzata e che il punto di non ritorno è stato di gran lunga superato. Che il rifugiarsi nell’idea di affidarsi alle armi non è un segno di forza, ma piuttosto un atto di dismissione ai loro stessi interessi, una resa incondizionata della ragione. Non c’è destino che si possa evocare o legittimare che sia in grado di governare la natura subdola e imprevedibile della guerra.

E’ vero, il male con le sue incognite non ci ha mai del tutto abbandonato, ma oggi, come scrive Jurgen Habermas, diventa reale il rischio di aggirarsi come sonnambuli sull’orlo dell’abisso. Il male assoluto deflagra e travolge ogni possibile ostacolo, come un grande sonno. Si impadronisce delle coscienze umane smarrendo qualsiasi principio o progetto di civilizzazione. Ancorché giustificate da nobili motivi, l’incongruenza di decisioni così demenziali rimandano a una visione ipnotica, allucinata. Ci si affida alla sua protervia, ci si concede alle sue barbarie, ai suoi artigli penetranti nella convinzione illusoria che il male assoluto si trasformi in una specie di manto protettivo della propria inquietudine, baluardo del proprio orgoglio, puntello della propria fragilità. Ci buttiamo, anima e corpo, tra le braccia di Satana per evitare di rispondere alla nostra cattiva coscienza.

Il male, per presentarsi, non ha bisogno di rulli di tamburi, non viene evocato con annunzi roboanti, ma avanza in punta di piedi, quasi con pigrizia, con passo felpato, incrociando un mondo caotico e opprimente, disuguale e scarso di sentimenti, un mondo dallo sguardo stravolto, dal respiro affannato.

Oggi, prostrati dalla pandemia, turbati da crisi umanitarie, da minacce sociali e sconvolgimenti climatici ci si sta abituando, poco a poco, a inghiottire, quasi inavvertitamente, particelle sempre più tossiche di paura e di angoscia che portano a un progressivo cedimento alla sfiducia, alla mancanza di speranza. Quando la gente viene dimenticata nei suoi sogni e nei suoi desideri, quando viene abbandonata a troppa sofferenza e a troppe amarezze, il male torna protagonista, pronto a seminare zizzania. In un mondo ingiusto e degradato sopravvive solo il più forte, il più agguerrito, il più famelico, quello che meglio si adatta a diventare lupo.

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