Da Meta a Netflix, da Twitter a Disney Plus, da Booking a Cisco, passando per Uber e Bytedance. A cui ora si aggiungono le altre Big tech, compresa Google. Il 2022 è stato un annus horribilis per l’industria tecnologica. Che, complici risultati inferiori alle previsioni e crolli in Borsa, ha annunciato un numero di licenziamenti con pochi precedenti: 155mila, stando ai dati raccolti da Layoffs.fyi. Oltre 97mila sono negli Usa (in cui nel frattempo sono stati creati 4,5 milioni di posti), calcola la società di consulenza specializzata in outplacement Challenger, Gray & Christmas. E il conto, nota il Financial Times, sta salendo rapidamente. Nelle prime tre settimane di gennaio Microsoft ha annunciato 10mila esuberi entro marzo, Amazon ha fatto sapere di progettarne addirittura 18mila, il produttore di software Salesforce ha avviato una ristrutturazione che ridurrà la forza lavoro di 8mila persone e Google ne ha lasciate a casa 12mila. Così si arriva di slancio a oltre 200mila dipendenti in meno.

Ma da cosa nasce la débâcle di un comparto che negli ultimi anni ha macinato risultati invidiabili? Le spiegazioni arrivate dai manager sono simili: la crescita economica sta rallentando, l’inflazione pesa come un macigno e la clientela, che durante i lockdown aveva speso molto più del solito in e-commerce e tecnologia, ora è più accorta e misurata nelle decisioni di acquisto. Ergo, il personale aggiuntivo reclutato dopo il Covid non serve più. I dipendenti, insomma, pagano un’espansione eccessiva decisa quando tutti i gruppi del comparto immaginavano che il boom del digitale sarebbe stato duraturo, nota il Financial Times. Ma quella scommessa si è rivelata perdente e ora bisogna impugnare l’accetta, come ammesso dall’amministratore delegato di Alphabet Sundar Pichai che in una lettera ai dipendenti ha scritto di prendersi la “piena responsabilità per le decisioni che ci hanno condotti qui” dopo che “per alimentare la crescita drammatica vista negli ultimi due anni abbiamo assunto per una realtà economica diversa da quella che affrontiamo oggi”.

La capogruppo di Google ha inserito nei suoi ranghi oltre 36mila persone solo nei primi nove mesi del 2022: l’organico totale è salito del 57% da inizio 2020. Ma i risultati di bilancio hanno deluso gli investitori: l’ultima trimestrale, pubblicata a ottobre, ha visto i profitti calare del 27% (a 13,9 miliardi) rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Questo mentre la possibile concorrenza del programma di intelligenza artificiale ChatGpt nel core business del colosso di Mountain View, la ricerca di informazioni su internet, spaventa a tal punto il top management che – come ha rivelato il New York Timesi fondatori Larry Page e Sergey Brin sono stati convocati in azienda per alcune riunioni d’emergenza sulla possibilità di inserire nel motore di ricerca di Google una funzionalità di chatbot. Difficoltà che non bastano per spiegare, lamentano i licenziati, come sia possibile lasciare a casa 12mila persone senza nemmeno comunicarglielo con una mail o messaggio: su Twitter molti segnalano di aver semplicemente trovato i propri account disattivati.

Lo stesso problema di crescita incontrollata lo sconta comunque anche Microsoft, che pure su ChatGpt ha investito fin dal 2019 e, stando agli annunci fatti a Davos dal numero uno Satya Nadella, si prepara a integrare le soluzioni realizzate da OpenAI in tutti i suoi prodotti. Il terzo trimestre del 2022 è andato male anche per la multinazionale di Redmond, con un utile netto in calo del 14% a 17,6 miliardi di dollari. Così, in attesa che l’AI risollevi le prospettive del business, taglia 10mila posti, dopo che l’anno scorso aveva aumentato la forza lavoro di oltre il doppio rispetto al 2021.

Discorso a parte per Amazon, che a sua volta da fine 2019 ha quasi raddoppiato il numero di dipendenti portandolo a 1,5 milioni. Nel terzo trimestre 2022 il gruppo fondato da Jeff Bezos aveva visto il risultato operativo calare a “soli” 2,5 miliardi contro i 4,9% dello stesso periodo 2021. I profitti sono derivati solo da Amazon Web Services, la divisione dei servizi di cloud computing, che però a sua volta ha visto i ricavi aumentare al ritmo più basso dal 2014. Nonostante questo il gruppo aveva annunciato altre 150mila assunzioni negli Usa per far fronte alle consegne del periodo natalizio e l’aumento degli stipendi medi a 19 dollari l’ora. A novembre la gelata della crescita ha cambiato il quadro e a ruota sono arrivati prima la decisione di bloccare le assunzioni a tempo indeterminato, poi le indiscrezioni su 10mila licenziamenti, infine l’annuncio di 18mila tagli – un record storico – nelle divisioni Amazon stores, People experience e Technology solutions. “Questi cambiamenti ci aiuteranno a perseguire opportunità di lungo termine con una struttura di costi più forte”, il commento dell’ad Andy Jassy, che in un messaggio pubblico sul sito del gruppo taglia minimizza: “Le compagnie che durano a lungo attraversano fasi differenti. Non sono ogni anno in modalità di forte espansione della forza lavoro”.

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