Portarsi al supermercato i contenitori da casa è possibile?

Secondo la legge si può, è il Decreto Clima del 12 dicembre 2019 che lo dice, e consente ai clienti di “utilizzare contenitori propri purché riutilizzabili, puliti e idonei per uso alimentare”. Ma tra il dire e il fare come sempre in Italia c’è di mezzo un mare di pastoie burocratiche, regolamenti confusi e ottusi, rigidità mentale, interessi e una cultura dell’usa e getta dura a morire.

Mi è capitato di vedere la video-inchiesta di Greenpeace, pubblicata in anteprima da ilfattoquotidiano.it nell’ambito della campagna ‘Carrelli di plastica’. E in effetti parlando con tanti attivisti e cittadini, mi hanno riferito che la realtà è questa, anzi, c’è chi ha addirittura commentato: “Il 44% degli esercizi che rispetta il Decreto Clima? La mia percezione è molto meno!”.

Ricordo che in Germania, a Friburgo, nel quartiere Vauban, il supermercato aveva dei contenitori lavabili sopra il banco della gastronomia, in vendita, e nessun contenitore usa o getta, neppure compostabile. Se ti dimenticavi il tuo contenitore, lo compravi e ci mettevi dentro il cibo, e la volta successiva lo riportavi.

Credo che qui in Italia ci sia anche una componente culturale: dal boom economico degli anni ’60, ci siamo attaccati in modo morboso alla pratica dell’usa e getta, considerandola come uno status symbol, alleata dell’igiene, del decoro, del benessere, della modernità, grazie anche ad una potente azione di lobbying e martellamento pubblicitario delle aziende degli imballaggi. Le istituzioni nei decenni hanno elaborato protocolli igienici e di recupero dei materiali sempre più complessi, spazzando via quella che era la normale economia circolare del dopoguerra (ogni contenitore si riutilizzava), rendendo quindi quasi impossibile (e culturalmente non accettato) il recupero dei contenitori e il vuoto a rendere. E così siamo arrivati ad essere sommersi dai rifiuti, con terre e acque inquinati dalle microplastiche, l’aria appestata dai fumi degli inceneritori.

Per assurdo, a forza di seguire l’igiene ossessiva e compulsiva apparente, abbiamo appestato l’ambiente e rinunciato alla salute vera.

Io non vado spesso a comprare prodotti nei supermercati, preferisco i piccoli mercatini dove i produttori vendono direttamente. Ma anche qui, nonostante la buona volontà da parte dei produttori, resta lo spauracchio delle ispezioni e tanta confusione. I poveri produttori si rompono il capo e non sanno bene cosa è lecito e cosa no: “Sì, dammi i barattoli vuori, te li riporto pieni la settimana prossima… ma se poi mi fanno la multa?”; “Non so se si può fare, devo avere un formulario trasporto rifiuti per portare 10 barattoli vuoti in auto?”; “Ogni barattolo che uso per metterci la marmellata o il miele deve essere rintracciabile, come faccio con Haccp? E come li lavo? Ho solo una lavastoviglie, può bastare? Non ho i soldi per comprare una lavastoviglie industriale…”.

L’Ausl, i Nas e tutti gli organi di controllo dovrebbero avere un ufficio che si occupa proprio di economia circolare, che aiuti e dia informazioni semplici e precise per facilitare i produttori nel riuso dei contenitori e nel vuoto a rendere, con operatori sensibili, formati e informati sui benefici del riuso. E laddove c’è un problema, risolverlo e semplificare,”sburocratizzare” l’intera gestione del vuoto a rendere e del riuso, renderla più intuitivao e accessibile a tutti.

Dopo la pandemia, in Italia stanno muovendo i primi passi tre coraggiose e giovani startup: ReCIRCLE, Around, Zero Impack. Le prime due, in particolare, si concentrano su locali, bar, negozi alimentari con gastronomia e negozi alimentari che fanno asporto; la terza si occupa soprattutto dei pasti aziendali. Tutte e tre propongono bellissimi contenitori lavabili, riusabili, per il cibo da asporto, che i clienti prendono pagando una cauzione o gratuitamente scaricando una app, e poi riportano in uno dei negozi partner.

I comuni dovrebbero incentivare queste pratiche, diffonderle e premiare i negozianti virtuosi. Solo così si uscirà dalla nicchia “ecologista” e pian piano si riuscirà a cambiare la cultura dell’usa e getta ancora troppo radicata in Italia. Una cultura che purtroppo (sulla scia del greenwashing imperante) è stata ammantata di green e nasconde ancora molti interessi: da ogni dove spuntano materiali che si dicono “bio”, “compostabili” “vegetable based”.

Una delle ultime invenzioni è la plastica biodegradabile da fanghi di depurazione, cosiddetta la “B-PLAS Demo”, della Caviro, non ancora in commercio, in fase di studio con l’Università di Bologna. Una bioplastica a buon costo, così la descrivono i suoi artefici, ma il suo basso costo non farà che incentivare la pratica del monouso anziché del lavabile, rallentando la conversione ad una economia veramente circolare. Ricordiamo che già adesso l’eccessiva quantità di oggetti e imballaggi “compostabili” crea problemi ai macchinari deputati al compostaggio e riduce la qualità del compost.

Non c’è alternativa: l’unico modo per ridurre i rifiuti è non farli!

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