di Giulio Di Donato*

La forza di determinate parole d’ordine mobilitanti, il carisma del leader, una proposta politica di rottura e nel segno della novità: è su questi fattori che oggi si costruisce consenso. Resta da capire quale sia la cornice di senso sulla quale, più o meno consapevolmente, fare leva. Intesa nei modi che meglio preciseremo più avanti, l’idea di nazione o meglio di popolo-nazione rimane una riserva di significato spendibile, da mobilitare in vista della costruzione di una posizione politico-culturale “terza”, incentrata sul principio della sovranità democratica, del multipolarismo, della piena e buona occupazione e su un’idea di libertà “in relazione” da sottrarre alle logiche del nichilismo, dell’individualismo e della mercificazione. Oltre e contro un bipolarismo asfittico privo di una contesa reale che non focalizza il campo sui nodi politici fondamentali, bensì su tematiche di comodo che vengono strumentalmente agitate allo scopo di aggirare le vere questioni di fondo.

Com’è noto, l’idea di un compimento finale, “il sogno di una cosa” per dirla con il giovane Karl Marx, è stato un punto di forza del progetto socialcomunista di critica e trasformazione rivoluzionaria della società. Grazie a questo elemento escatologico, quel tipo di visione ideologica, benché inscritta nel piano dell’immanenza sociale, assumeva i tratti di una religione secolare collocata tra fede e ragione, in grado di mobilitare le masse nelle forme di una dedizione assoluta e di suscitare speranze parareligiose. Il “centro spirituale di riferimento” era allora l’economia: ora, attese e angosce si sono invece spostate altrove e ruotano attorno al nesso tecno-scienza/tecno-economia e alla natura/destino dell’umano, con le sue domande di una qualità di vita diversa e di un differente modo di relazionarsi a se stessi e agli altri.

Con la crisi delle fedi politiche del secolo scorso – il riferimento è sempre alle forze organizzate del movimento operaio di ispirazione marxista – è venuta meno anche la tensione palingenetica verso il futuro da cui esse traevano alimento. Una tensione che non può essere dismessa del tutto, né chiaramente replicata nelle forme del passato: deve piuttosto incorporare promesse meno ambiziose (poste su un terreno che non è più solo quello economico) e va messa in rapporto con altro. Giocando con le parole, il senso dell’oltre deve oggi procedere di pari passo con il contro e con il prima: con l’elemento polemico, con l’ovvia “verità del politico” come antitesi di amico-nemico, quindi con la logica opposizionale presente nel discorso populista (da riarticolare sull’asse vincolo esterno/vincolo costituzionale); e con il prima, ovvero con il fondo comunitario della vita collettiva, intrecciando visioni critiche e sedimentazioni di senso, credenze popolari e forze materiali, orizzonte simbolico e piano concreto, dimensione politica e dimensione spirituale. Il tutto a partire da un’interpretazione progressiva del nazional-popolare (Preterossi, 2022) e nel nome delle migliori esperienze del passato.

Ne Il concetto di politico Carl Schmitt, a un certo punto, scrive che la grande e alta politica è soltanto la politica estera. Noi sappiamo che la grande politica è anche quella in grado di governare e orientare i processi economici e lo sviluppo tecnologico, la politica capace, dunque, di riferirsi al “destino dell’uomo e non a suoi particolari problemi”. La geopolitica resta in ogni caso centrale: si capirebbe ben poco di quello che accade e può accadere senza fare riferimento alle sue logiche.

La sfida, in definitiva, è quella di valorizzare il nesso tra la questione nazionale, la questione sociale e la questione democratica, all’insegna del senso dell’autonomia della politica e di una visione strategica dell’interesse nazionale (da declinare in termini progressivi sul piano interno e orientati verso il multipolarismo e la ridefinizione degli assetti europei sul piano esterno). Per fare questo bisogna aprire una profonda riflessione sulla posizione e sul ruolo che intende assumere il nostro Paese nel nuovo disordine globale. Gli esempi migliori dei tempi della Prima Repubblica ci servano di monito: senza una politica estera assertiva e autonoma, in grado di salvaguardare le giuste interdipendenze e di crearne di nuove, c’è solo il deserto del vincolo esterno auto-imposto con le conseguenze che ben conosciamo in fatto di spoliticizzazione integrale e di disattivazione del nucleo politico e sociale della nostra Costituzione.

*Dottore di ricerca in filosofia del diritto

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