Nonostante i combustibili fossili siano la causa principale della crisi climatica e l’Africa sia il continente più colpito dagli effetti dei cambiamenti climatici, duecento compagnie petrolifere, del gas e del carbone stanno esplorando o sviluppando nuove risorse fossili e nuove infrastrutture come terminal di gas naturale liquefatto (Gnl), in 48 dei 55 paesi africani. E l’89% della nuova capacità di Gnl del Continente è destinata all’esportazione, mentre gli investitori internazionali detengono oltre 109 miliardi di dollari in azioni e obbligazioni in società che guidano questa espansione. Lo racconta il rapporto “Chi finanzia l’espansione dell’industria fossile in Africa?”, lanciato dall’organizzazione tedesca Urgewald, dalla coalizione Stop EACOP, da Oilwatch Africa e da altre 34 Ong africane alla Cop27 di Sharm el-Sheik. Ha partecipato anche ReCommon, che sottolinea il ruolo dell’Italia e, in modo particolare, di Eni, che nel 2021 è risultata la seconda multinazionale estrattiva per attività in Africa e delle banche, Intesa Sanpaolo e UniCredit.

Il ruolo di Eni in Africa – Il 59% della produzione complessiva dell’italiana Eni (controllata al 30% dal ministero del Tesoro) arriva dal continente africano. “L’aumento previsto negli anni a venire di 1,32 miliardi di barili, frutto anche di un investimento di 1,1 miliardi di dollari fra il 2020 e il 2022 – spiega il report – porterà le emissioni totali derivanti da questa produzione a una quantità doppia rispetto a quelle che sono le emissioni complessive di gas serra registrate in un anno in Italia”. Solo la Sonatrach algerina dedica più fondi all’attività di esplorazione. Tra i 14 paesi africani dove Eni è presente ci sono Egitto, Nigeria, Libia, Algeria e Repubblica del Congo, in cui la società è attiva da decenni. Ma è in fortissima crescita la sua presenza in Angola e Mozambico.

Nel primo Paese, dal 2018 a oggi ha effettuato numerose scoperte, arrivando a formare un consorzio con la BP, denominato Azule Energy, che dovrebbe produrre 200mila barili di petrolio attingendo da riserve stimate per un totale di due miliardi di barili. Entro il 2026, inoltre, in Angola si arriverà a produrre sei miliardi di metri cubi di gas l’anno. Il gas è il business più fruttuoso in Egitto (dove nel 2016 è stato scoperto il mega-giacimento di Zohr) ma anche in Mozambico, dove Eni è già attiva con il progetto Coral South, approvato nel 2017 e per il quale la società è operatore delegato per conto dei suoi partner nell’area, ExxonMobil, Cnpc, Galp, Kogas ed Enh.

Dal Mozambico la prima spedizione di Gnl – Proprio in questi giorni, l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, ha annunciato la prima spedizione di gas naturale liquefatto, prodotto dal giacimento Coral, nelle acque profonde del bacino di Rovuma e proveniente dall’impianto Coral Sul Floating Liquefied Natural Gas (Flng), definendolo “un passo significativo verso la transizione energetica”. Un passo che, secondo Descalzi “può contribuire in modo significativo alla sicurezza energetica europea, attraverso una crescente diversificazione dell’approvvigionamento, sostenendo nel contempo una transizione giusta e sostenibile”.

L’impianto Coral Sul FLNG, tra l’altro, ha una capacità di liquefazione del gas di 3,4 milioni di tonnellate all’anno e produrrà GNL dai 450 miliardi di metri cubi di gas nel giacimento di Coral. Ma la multinazionale sta spingendo per aggiungere anche il Rovuma LNG. “Valore stimato in 30 miliardi di dollari – ricorda il report – con tanto di realizzazione di un impianto su terraferma per il processamento e l’export del gas proveniente da 24 pozzi sottomarini”. Ma proprio nella regione interessata dall’attività di Eni e della multinazionale francese Total è in corso un’insurrezione armata guidata dal gruppo Al-Shabaab, che dal 2017 ha causato oltre 4mila vittime e 800mila sfollati. Da luglio scorso c’è stata una forte impennata degli attacchi, con 120 azioni e almeno 200 morti, tra le quali la suora comboniana Maria De Coppi, uccisa nel villaggio di Chipene.

Fondi e banche private – “Tutte queste opere devastanti – scrive ReCommon – sarebbero difficilmente realizzabili senza il sostegno finanziario di fondi e banche private. Dati alla mano, aggiornati a luglio 2022, oltre 5mila investitori istituzionali avevano azioni e obbligazioni delle compagnie fossili attive in Africa, per un ammontare di 109 miliardi di dollari. “Dodici miliardi fanno capo al fondo di investimento statunitense BlackRock – si legge nel report – che a Eni ‘dedica’ 958 milioni del suo portafoglio”. Tra gli istituti di credito sono ancora due soggetti a stelle e strisce a dominare: Citigroup (5,591 miliardi) e JPMorgan Chase (5,093 miliardi), seguiti dalla francese Bnp Paribas.

“Ma la finanza privata italiana non sta certo a guardare – commenta ReCommon – piazzandosi al settimo posto a livello globale per finanziamenti fossili in Africa. In classifica, infatti, sono presenti UniCredit (2,163 miliardi) e Intesa Sanpaolo (1,491 miliardi), in prima fila nel sostenere i progetti oil&gas di Eni nel continente africano. Solo per fare alcuni esempi, si parla di 160 milioni di dollari da parte di UniCredit e di 110 milioni di dollari da parte di Intesa Sanpaolo(tramite la incorporata Ubi banca) al progetto Coral South FLNG di Eni in Mozambico, mentre sembrano pronti i finanziamenti per i progetti della joint-venture Azule Energy in Angola. “Mentre in casa nostra si propongono come enti di prossimità, di vicinanza ai territori e sostenibilità – commenta Daniela Finamore, campaigner Finanza e Clima di ReCommon – le nostre principali banche alimentano altrove un business fossile che, in modo particolare nel continente africano, oltre a provocare devastazione ambientale è fonte di conflitti e instabilità politica, economica e sociale”.

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