A Sharm el Sheikh arrivano i ministri, ma gli occhi sono puntati soprattutto sul G20 di Bali, dove Joe Biden e Xi Jinping concordano di riavviare i colloqui tra Stati Uniti e Cina, come parte dei negoziati internazionali sul clima. Così inizia la seconda settimana di Cop 27, dopo i primi sette giorni di lavori a rilento. I negoziatori stanno cercando di elaborare la bozza di testo da concordare, ma non c’è una visione comune neppure sull’obiettivo di non superare l’aumento della temperatura a 1,5°C sopra i livelli preindustriali. Nel testo di Glasgow è rimasto quel riferimento al target “ben al di sotto dei 2°C”, eredità dell’accordo di Parigi a cui molte economie ora si appigliano. C’è una prima bozza di documento su un fondo per le perdite e i danni al 2024, ma la discussione è ancora aperta. Tra le cause che frenano i negoziati, anche l’assenza della Cina. A Bali, strette di mano, sorrisi e un colloquio bilaterale tra Xi e Biden sono una buona notizia, ma non ancora una risposta concreta sui temi di cui si dibatte alla Cop 27. Per esempio sul coinvolgimento della Cina nel Global Methane Pledge, patto globale lanciato nel 2021 da Ue e Usa per ridurre le emissioni di metano del 30% entro il 2030 dal quale, ad oggi, sono esclusi i grandi assenti di Sharm el Sheik: Cina, Russia e India. E se lo scorso anno Pechino e Nuova Delhi avevano ottenuto che nel testo finale fosse inserito il concetto di ‘eliminazione graduale’ del carbone, al posto di quello di ‘eliminazione’, l’India chiede ora che la formulazione ‘riduzione graduale’ sia estesa a tutti i combustibili fossili, non solo al carbone. E nel Climate Change Performance Index 2023, presentato alla Cop 27, l’India è all’ottavo posto. Dopo quattro Paesi, dato che restano vuote anche quest’anno le prime tre posizioni della classifica redatta da Germanwatch, CAN e NewClimate Institute in collaborazione con Legambiente per l’Italia.

Il Climate Change Performance Index – Nessuno tra gli Stati analizzati (59 nazioni più l’Unione Europea, rappresentanti del 90% delle emissioni climalteranti del globo) ha raggiunto le prestazioni necessarie a restare sotto la soglia di 1,5°C. In cima alla classifica Danimarca e Svezia, al quarto e quinto posto, grazie all’impegno per l’abbandono delle fonti fossili e nello sviluppo delle rinnovabili. Seguono Cile, Marocco e India che rafforzano l’azione climatica, nonostante le loro difficili situazioni economiche. In fondo alla classifica, invece, Paesi esportatori e utilizzatori di combustibili fossili come Iran, Arabia Saudita e Kazakistan. La Cina, maggiore responsabile delle emissioni globali, scivola al 51° posto perdendo tredici posizioni rispetto allo scorso anno. Nonostante il grande sviluppo delle rinnovabili, le emissioni cinesi continuano a crescere per il forte ricorso al carbone e la scarsa efficienza energetica del sistema produttivo. Al 52° posto gli Stati Uniti, secondo emettitore, che però guadagna tre posizioni per la nuova politica di Biden. Alla Cop, il presidente Usa ha annunciato nuove regole, nell’ambito del Global Methane Pledge, per obbligare le aziende a monitorare le emissioni di metano, riparare le perdite in tempi rapidi e limitare flaring e venting di gas fossile. La prima pratica consiste nel bruciare il gas naturale in eccesso, estratto insieme al petrolio, senza recupero energetico; il venting è il rilascio in atmosfera volontario e controllato. Queste regole dovrebbero ridurre le emissioni Usa di metano (climalterante 82,5 volte superiore alla CO2 nei primi 20 anni in cui permane in atmosfera) dell’87% rispetto ai livelli del 2005. Il patto è stato sottoscritto da 122 Paesi, una quarantina dei quali sarebbero pronti a nuovi impegni. Ad oggi, però, non è chiaro chi accetterà cosa.

Le performance climatiche di Unione europea e Italia – Tra i Paesi del G20, solo India (8^), Regno Unito (11°) e Germania (16^) si posizionano nella parte alta della classifica del Climate Change Performance Index, mentre l’Ue sale di tre gradini raggiungendo il 19° posto, ma è frenata dalle pessime performance di Ungheria e Polonia. La Germania ha appena annunciato l’intenzione di uscire dall’Ect (Trattato della Carta dell’Energia), sistema di arbitrato che consente alle società dei combustibili fossili di citare in giudizio i governi per mancati profitti. Lo hanno già fatto Francia, Spagna e Paesi Bassi. A penalizzare l’Italia, in stallo a metà classifica (sale dal 30° al 29° posto), sottolinea Legambiente, sono “il rallentamento nello sviluppo delle rinnovabili (che vede l’Italia 33esima nella classifica specifica) e una politica climatica nazionale ancora inadeguata. L’attuale Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (Pniec), infatti, consente un taglio delle emissioni di appena il 37% rispetto al 1990 entro il 2030”. Anche rispetto al metano nei giorni scorsi Legambiente ha denunciato e documentato perdite in atmosfera in alcuni impianti in Italia, sottolineando che non esistono, ad oggi, norme che impongano un monitoraggio costante e che il regolamento Ue in discussione presenta diversi limiti, anche a causa delle pressioni delle compagnie dell’oil&gas.

Le aziende degli idrocarburi – Lo racconta anche la ‘Global Oil & Gas Exit List’ (Gogel) stilata dalle ong internazionali, dalla quale emerge che, tra il 2020 e il 2022, la spesa globale delle compagnie per l’esplorazione di nuovi giacimenti di petrolio e gas in tutto il mondo è aumentata del 12,4% (salendo a 160 miliardi di dollari). Su 685 aziende upstream, ossia che si occupano di esplorazioni ed estrazioni, 655 hanno piani di espansione e sono 55 quelle egiziane che stanno esplorando nuove risorse. Più di 500 quelle che si stanno attivando per portare in produzione, prima del 2030, 230 miliardi di barili di petrolio equivalente (bboe) di risorse non sfruttate. Produzione e combustione solo di queste risorse (senza parlare, dunque, dei nuovi gasdotti, oleodotti o terminal Gnl in cantiere) porterebbero a emissioni di gas serra in atmosfera 30 volte superiori a quelle attuali dell’Ue.

Il Global Shield e l’appoggio di Biden (che non cita loss&damage) – Nel frattempo, alla Cop è stato presentato anche l’impegno Global Shield (Scudo globale), un programma nato quest’anno sotto presidenza tedesca del G7 per rafforzare i regimi di protezione sociale e di assicurazione e aiutare i paesi vulnerabili a riprendersi in caso di eventi estremi. Confermati gli oltre 170 milioni di euro forniti da Berlino, ai quali si aggiungeranno più di 40 milioni da altri paesi. Tra i primi destinatari Bangladesh, Costa Rica, Fiji, Ghana, Pakistan, Filippine e Senegal. Ne ha parlato anche Biden al suo arrivo alla Cop, dopo aver chiesto scusa per l’uscita dall’Accordo di Parigi durante la presidenza Trump e aver ricordato il pacchetto da 368 miliardi di dollari sul clima (il più ambizioso della storia degli Usa). Biden ha anche annunciato il raddoppio del fondo per l’adattamento (la promessa mancata dei 100 miliardi all’anno che avrebbero dovuto sborsare i Paesi ricchi) con 150 milioni di dollari per l’Africa e la partnership con l’Ue da 500 milioni di dollari per la transizione green (qualunque cosa significhi, ndr) nell’Egitto di Al-Sisi. Ma se Biden ha assicurato il suo impegno al Global Shield, non ha invece citato il meccanismo ‘loss & demage’ chiesto dal Gruppo dei 77 (130 nazioni) più la Cina. Lo hanno notato i giovani delle comunità indigene che, infatti, lo hanno contestato.

La prima bozza su loss&demage – Sono in molti, in realtà, a ritenere che il Global Shield sia un contentino da ‘rifilare’ ai Paesi vulnerabili come alternativa a ciò che davvero vogliono, ossia un risarcimento per perdite e danni subiti a causa dei cambiamenti climatici provocati dalle politiche dei paesi ricchi. Harjeet Singh, capo della strategia politica globale presso il Climate Action Network, rete globale di 1800 gruppi della società civile, ha definito il Global Shield “l’ennesima strategia di distrazione”. Ma nel frattempo è stata pubblicata sul sito dell’Unfccc, l’agenzia dell’Onu per il clima, una prima bozza di documento sull’istituzione di un fondo per le perdite e i danni. Come già stabilito alla Cop 26, si prevede l’avvio di un processo che durerà due anni e che porti all’attuazione del fondo nel 2024. Due le opzioni indicate: la nomina di una commissione ad hoc, oppure un negoziato meno strutturato, affidati a vari organismi sotto la regia dell’Unfccc.

Donne e risorse idriche – Ma nel giorno che la Cop ha dedicato alla risorsa idrica e al ruolo delle donne, sia nella lotta ai cambiamenti climatici sia come principali vittime degli effetti disastrosi del riscaldamento globale, significative sono state le testimonianze delle donne indigene dell’Amazzonia, che hanno denunciato le violenze commesse “contro la nostra terra e i nostri corpi”. “Siamo i principali custodi delle foreste incontaminate. Se le donne sono protette – ha raccontato Helena Gualinga, attivista ecuadoriana per l’ambiente e i diritti umani della comunità Kichwa Sarayaku, a Pastaza – proteggeremo anche i territori e gli ecosistemi essenziali per la mitigazione del clima”. Non è un caso se Climate counsel, Greenpeace Brasile e Observatório do clima hanno annunciato che porteranno di fronte alla Corte penale internazionale dell’Aja i massacri compiuti nell’ultimo decennio proprio in Amazzonia. Dove sono state uccise 430 persone, tra il 2011 e il 2021, in conflitti legati alla terra e all’acqua. Senza contare gli oltre 550 riusciti a sopravvivere, 87 dei quali torturati e circa 100 trasformati in rifugiati interni.

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