Cultura

L’addio al teatro di Eugenio Barba, fondatore dell’Odin Teatret

Per singolare coincidenza il ritiro di Barba, nell’anno della scomparsa di Peter Brook e della definitiva chiusura delle attività riconducibili al maestro polacco Jerzy Grotowski, segna anche la fine di un ciclo caratterizzato, in maniera fondamentale, dal cosiddetto ‘teatro povero’

di Paolo Martini

L’addio al teatro di Eugenio Barba, uno dei più straordinari protagonisti della scena contemporanea, fondatore dell’Odin Teatret, è cominciato a Parigi con le ultime rappresentazioni del nuovo lavoro ’Tebe al tempo della febbre gialla’: l’ultimissimo atto è previsto per la sera di sabato 19 novembre, al Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine – altro nome superbo degli anni della rivoluzione teatrale – a La Cartoucherie di Vincennes. Per singolare coincidenza il ritiro di Barba, nell’anno della scomparsa di Peter Brook e della definitiva chiusura delle attività riconducibili al maestro polacco Jerzy Grotowski, segna anche la fine di un ciclo caratterizzato, in maniera fondamentale, dal cosiddetto ‘teatro povero’. Giusto per far capire a tutti di chi stiamo parlando, l’addio di Barba è accompagnato a Parigi persino da una giornata di studi che la prestigiosa istituzione universitaria MSH-Maison des Scienses de l’Homme gli ha voluto dedicare, il 10 novembre, con dibattiti e proiezioni.

Partito dal natio Salento per il lontano nord Europa, Barba si è ritrovato a fare teatro quasi per sbaglio, giovanissimo, pur di abbattere la barriera linguistica e culturale, con una compagnia racimolata tra gli allievi respinti ai corsi di recitazione, in una stalla che veniva dismessa ai margini di una cittadina della Danimarca, Holstebro. Dopo l’affermazione dell’Odin diverrà meta di un incessante pellegrinaggio di spettatori e addetti ai lavori da mezzo mondo. Per puro caso, Barba, mentre studiava all’università di Oslo lingue e storia delle religioni, facendo pure il saldatore per mantenersi, scelse la Polonia comunista per fare anche una scuola di cinema, e così si è ritrovato al fianco dell’allora sconosciuto Grotowski, nella piccola sala di Opole: così è cominciata appunto la rivoluzione del teatro povero, che ha ridisegnato il rapporto con gli spettatori e i canoni della rappresentazione, all’insegna di una maggiore autenticità. E mentre il Maestro diventava pian piano un vero e proprio guru della formazione, alla Stanislavskj, fino a ritirarsi prestissimo dalle scene, Barba si è lanciato in una travolgente avventura di cinquant’anni di spettacoli e scambi con tutto il mondo, dando vita non solo ai suoi capolavori e al mito dell’Odin – che è stato da subito considerato al pari di un Living Theatre, modello di quegli anni così vivaci e tempestosi – ma anche a una fitta rete intercontinentale di esperienze, denominate del Terzo Teatro, perlopiù spontanee e artigianali, nate al di fuori, se non spesso contro, i tradizionali contesti istituzionali.

Tebe al tempo della febbre gialla’, lo spettacolo d’addio, che si rifà in qualche modo a uno dei miti più frequentati del teatro da sempre, Edipo, tocca poi la rivoluzione del giallo chimico di cui hanno fatto larghissimo impiego i pittori post-impressionisti. E’ forse un po’ una metafora sullo stato d’alterazione in cui hanno operato Barba e gli altri protagonisti di quella che gli storici considerano la seconda Grande Riforma del teatro come arte totale, dopo la prima consumatasi tra fine Ottocento e inizio Novecento. Ma l’aspetto più sorprendente dello stile di Barba è anche nella scelta, insieme antichissima e post-moderna, di lavorare in profondità sulle emozioni e sulle suggestioni, rinunciando agli orpelli e all’arroganza del contenuto facile e dichiarato, al punto di poter dire oggi: ‘Bisogna smettere prima di aver detto tutto. Ma non avevo niente da dire. Il teatro è stato per me un rifugio, una isola galleggiante, una Galapagos di libertà’. Si noti bene che, comunque, nemmeno in quest’ultima occasione gli attori e Barba rinunceranno a un altro vezzo di sottrazione caratteristico dell’Odin, ossia non presentarsi mai al rito degli applausi: ‘Sarebbe stata un’offesa’, ha dichiarato. ‘Se gli attori ritornano in palcoscenico per fare un inchino, rivelano che tutto quello a cui si è assistito è una finzione. Il teatro è realtà, assolutamente assoluta’(dramaholic.it).

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