Trenta anni di carcere per Francesco Grande Aracri, fratello del boss Nicolino, ritenuto dalla Direzione Antimafia di Bologna “Il simbolo della ‘ndrangheta in Emilia”. 16 anni e 6 mesi per suo figlio Paolo. Pene dai 2 ai 9 anni per gli altri 14 imputati. Li ha chiesti al termine della sua requisitoria il sostituto procuratore Beatrice Ronchi, pubblico ministero al processo Grimilde in Corte d’Assise a Reggio Emilia. Processo di mafia che volge al termine dopo 55 udienze nel dibattimento e con le pesanti sentenze del rito abbreviato già confermate dalla Corte d’Appello di Bologna. Francesco Grande Aracri, dice la dott.ssa Ronchi, non è solo il simbolo della mafia in regione: “È la ‘ndrangheta in Emilia. È la più risalente forma di adattamento e di mimetizzazione della ‘ndrangheta di Cutro al nord”.

Non è mai stata fatta una graduatoria tra i nomi di spicco della cosca cutrese nel distretto emiliano romagnolo, aggiunge la Ronchi, ma se si facesse emergerebbe che “Francesco è il vertice massimo e da decenni tesse le fila e detta le strategie della ‘ndrangheta. Strategie a cui, negli anni, tutti i sodali si sono uniformati, riconoscendone l’efficacia. Ha modellato la ‘ndrangheta su questo territorio con forme che le consentissero di proliferare, di estendere le metastasi, di infiltrare ogni settore, soprattutto quello economico” lasciando che “gli atti eclatanti, gli omicidi, gli attentati, la manifestazione più brutale della forza di intimidazione della cosca, dovessero essere messi da parte”. Perché l’Emilia “non avrebbe digerito azioni predatorie eclatanti e ne avrebbe respinto e messo al bando i protagonisti. No, bisognava parlare lo stesso linguaggio, quello dell’imprenditorialità e della ricchezza, magari veloce e facile, ottenuta tramite scorciatoie. Questo è un linguaggio che l’emiliano poteva comprendere e Francesco Grande Aracri è stato il primo, dando l’esempio, a realizzare in Emilia l’immagine dello ‘ndranghetista moderno che si adatta al contesto in cui è approdato, così mimetizzandosi entro la società civile per agire ed arricchirsi sotto traccia”.

È una immagine straordinariamente limpida della mimetizzazione cui la ‘ndrangheta figlia della famiglia Grande Aracri insediata a Brescello ha fatto ricorso nei decenni riuscendo senza tanto clamore ad infettare l’intera regione come ampiamente dimostrato dal processo Aemilia. Beatrice Ronchi cita a proposito anche la recente sentenza della Cassazione del 20 ottobre che ha messo la parola fine a quel processo, là dove dice che a Reggio Emilia era insediato il vertice di una associazione mafiosa “che ha compiuto nel tempo una progressiva evoluzione strutturale, passando dagli schemi tradizionali della ‘ndrangheta verso un più sofisticato metodo di penetrazione criminale nel tessuto sociale, contraddistinto anche dalla prospettiva di realizzare progetti dominanti in svariati settori imprenditoriali e della società civile”. In sostanza: “La cosca ha cercato di nascondere sotto le spoglie del cutrese lavoratore immigrato in Emilia qualcosa di ben diverso che altro non è che ‘ndrangheta. Che va, questa sì, discriminata. O meglio: va combattuta, respinta, tenuta a distanza e isolata dalla società civile. L’argomento della discriminazione e della criminalizzazione dei cutresi in quanto tali, e non perché mafiosi, è un inganno”. Inganno esemplificato da una illuminante lettera, richiamata in requisitoria dal pubblico ministero, che proprio Francesco Grande Aracri spedì nel gennaio 2014 al presidente della Repubblica, al ministro di Giustizia, al Consiglio Superiore della Magistratura, a sindaci e giornali, nella quale scriveva: “La comunità cutrese sta subendo uno stillicidio di umiliazioni che certamente non merita. Ci si sente impotenti davanti a vicende del genere, dal momento che nessuna delle Autorità prende atto della solitudine in cui si trova l’intera comunità che viene costantemente ed ingiustamente criminalizzata.” Lettere e rivendicazioni di questo tipo, come ricorda Beatrice Ronchi, sono state negli anni seguenti i cavalli di battaglia degli imputati di Aemilia, le cui reali intenzioni sono state poi smascherate dai fatti, dalle indagini e dalle condanne.

Per questa pericolosa e pervasiva strategia strisciante, ma anche per i reati concreti commessi negli anni in cui facevano il bello e il cattivo tempo, i vari membri della infinita famiglia Grande Aracri residente a Brescello vengono severamente colpiti dalla requisitoria al termine del dibattimento: 30 anni, il massimo, per Francesco Grande Aracri, e 16 anni e 6 mesi per suo figlio Paolo. Queste le altre richieste di pena: Barberio Gregorio, 6 anni; Brugnano Domenico 4 anni; Cagossi Luigi 9 anni;
Caschetto Salvatore 2; Costi Omar 9; Giordano Nunzio 6; Oppido Domenico 7; Oppido Gaetano 5 anni e 4 mesi; Passafaro F. Paolo 4 anni e 8 mesi; Passafaro Giuseppe 4 anni e 4 mesi; Pistis Matteo 5; Pistis Roberto 4 anni 8 mesi; Rizzo Antonio 5 anni 4 mesi; Passafaro Pietro 4 anni 8 mesi

Già confermate in appello sono invece le condanne nel rito abbreviato degli altri due figli Salvatore (14 anni e 4 mesi) e Rosita (2 anni). L’ombra dei grandi vecchi della famiglia, Nicolino e Francesco, oscura ancora il territorio emiliano e prova ne sono i nuovi sequestri di beni e i processi in corso, come Perseverance. Mentre Grimilde volge al termine Nicolino è all’ergastolo nel carcere Opera di Milano, mentre Francesco resta rinchiuso nella casa circondariale di Novara. Così vicini; così lontani.
Lunedì prossimo il processo riprende con le Parti Civili e a seguire le arringhe difensive. Molti avvocati difensori hanno disertato la due giorni della requisitoria di Beatrice Ronchi e il fatto non è sfuggito al procuratore generale reggente di Bologna LuciaMusti che commenta: “Prendiamo atto dell’assenza di tutti i difensori, tranne l’avvocato Vincenzo Belli, alla prima udienza dedicata alla requisitoria. Certamente è un fatto inusuale

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