In Emilia, scrive la seconda sezione penale della Corte di Cassazione, esisteva una associazione mafiosa “dotata di autonoma capacità operativa, idonea ad esprimere una localizzata forza di intimidazione. Alla progressiva e massiccia penetrazione nel tessuto produttivo non è riuscito a porre un tempestivo ed efficace argine il ceto imprenditoriale sano”, che spesso anzi ha avuto “comportamenti di interessata tolleranza, sfociati talvolta in un consapevole ricorso alla forza della cosca”.

Non fa sconti il collegio presieduto da Giovanni Diotallevi alla ‘ndrangheta che ha piantato radici in Emilia Romagna. Tantomeno li fa a chi in regione ha visto nella ‘ndrangheta un affidabile “fornitore di servizi”: dalle minacce al recupero crediti, della falsa fatturazione allo sfruttamento lavorativo. Le motivazioni della sentenza, che chiude definitivamente il processo Aemilia, danno atto del lavoro rigoroso svolto dalla Procura Distrettuale Antimafia prima e dai Giudici di primo e secondo grado poi. In 458 pagine la Cassazione spiega perché la stragrande maggioranza degli 87 ricorsi presentati è stata rigettata e perché alla fine l’impianto accusatorio sostenuto dai Pubblici Ministeri esce confermato assieme a oltre mille anni complessivi di carcere per i tre quarti dei 220 imputati iniziali.

La ricostruzione storica e processuale rigorosa delinea una “Associazione emiliana autonoma dalla casa madre di Cutro sebbene ad essa collegata”. Viene ricordata la “sanguinosa guerra di mafia che ha interessato anche il Nord e l’Emilia, conclusa con l’omicidio di Antonio Dragone nel 2004, che ha sancito l’egemonia dei Grande Aracri”. Negli anni successivi la ‘ndrangheta emiliana arriva ad “inquinare interi settori dell’economia locale, quali l’edilizia e l’autotrasporto, con espulsione dal mercato di operatori non in grado di competere in settori gravemente condizionati dal controllo mafioso”. Le prime vittime sono “le imprese cutresi al Nord”, ma poi si arriva “all’imprenditore grosso, attratto nell’orbita associativa dall’offerta del servizio di falsa fatturazione”. E così la mafia abbraccia “soggetti apparentemente insospettabili e ampiamente accreditati nella società emiliana”. Come Augusto Bianchini, modenese titolare di un’azienda di costruzioni, definito “imprenditore colluso, che coinvolgeva esponenti della ‘ndrangheta negli appalti dei lavori pubblici per la ricostruzione post terremoto, dal recupero crediti al reperimento di manodopera, con reciproci vantaggi”. Su quei carpentieri e manovali forniti dalla mafia emiliana, che lavoravano dietro i cancelli dei suoi cantieri, chiusi a chiave perché nessuno vedesse, la Cassazione cita una frase del collaboratore di giustizia Antonio Valerio: “I cantieri li prendevamo sempre offrendo mille lire meno degli altri. Perché gli operai erano tutti in nero e non sapevamo neanche come si chiamavano realmente perché facevamo le fotocopie dei libri matricola”.

Ma c’è un altro vantaggio a cui guardano gli imprenditori emiliani in affari con la ‘ndrangheta: la “garanzia di impunità”. Perché “la ‘ndrangheta portava persone che si sarebbero accollate il rischio dei controlli, senza fare danni alle imprese”, nel caso ad esempio fosse intervenuta la Guardia di Finanza. Aggiunge la Cassazione che grazie a questa capacità operativa “nella realtà emiliana l’associazione si era affrancata da molte incrostazioni rituali della ‘ndrangheta tradizionale. Gli esponenti più autorevoli, noti e stimati del gruppo, affiancavano Nicolino Sarcone (il capo), per conto del quale avrebbero dovuto anche svolgere un ruolo di raccordo con ambienti istituzionali e politici, per sondarne ed orientarne le scelte”. Sono “i quattro amici al bar: consiglieri, uomini di fiducia, portavoce, sviluppatori di idee, in stretto e confidenziale rapporto con esponenti delle forze dell’ordine e ben introdotti nella società civile emiliana. Soggetti puliti che fungevano da cinghia di trasmissione e reclutavano nuove imprese da coinvolgere nel sistema delle false fatturazioni”.

In questo poker di personaggi importanti figura anche il noto imprenditore Giuseppe Iaquinta, padre del calciatore campione del mondo Vincenzo. Su di lui la Cassazione è impietosa elencando le sette date, con dettaglio di luoghi e di partecipanti, in cui l’imprenditore era tra gli ospiti di “summitmafiosi. E aggiunge a quelle la sua presenza al matrimonio della figlia del capo cutrese Nicolino Grande Aracri, nonché “alla cena del 21 marzo 2012 a Reggio Emilia con il politico Giuseppe Pagliani (capogruppo di Forza Italia in consiglio comunale) in occasione della quale i componenti del clan avrebbero predisposto attività di contrasto alla diffusione di notizie riguardanti la loro attività nel territorio emiliano”.

Con il deposito di queste motivazioni cala il sipario sul processo Aemilia ma non sulla ‘ndrangheta in Emilia. Due altri grandi processi sono in corso a Reggio Emilia: “Grimilde”, con la requisitoria finale della pm Beatrice Ronchi attesa per il 7 novembre, e “Perseverance“, che inizierà il dibattimento nel febbraio 2023. Alla sbarra membri delle famiglie Grande Aracri, Sarcone, Muto e decine di imputati accusati di avere preso il testimone delle attività losche dopo gli arresti del 2015 e le condanne confermate dalla Cassazione. In particolare la falsa fatturazione: vero business criminale degli anni più recenti, con centinaia di società del territorio attratte dalla prospettiva di abbattere i costi e le tasse per aumentare i profitti. Segno che la mafia economica è ancora viva e vegeta in Emilia Romagna.

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