Nel passato di Torino ci sono tante storie: il cattolicesimo sociale di Don Bosco e dei salesiani, lo sviluppo del pensiero laico di Antonio Gramsci, gli scioperi operai del 1943 che accelerarono la fine del regime fascista, le lotte operaie del ‘62, con i fatti di Piazza Statuto, il ’68 degli studenti di Palazzo Campana, l’autunno caldo del 1969, con il protagonismo operaio e sindacale che hanno consentito importanti conquiste economiche per i lavoratori e democratiche per tutti. Forse per questo la città vive con tanto disagio la realtà attuale.

Qualcuno sostiene che il problema è che Torino è anche la città del diavolo, ma non consola perché le spiegazioni vanno cercate in altre direzioni. Una ce l’hanno raccontata Bagnasco, Berta e Pichierri in Chi ha fermato Torino? (Einaudi 2020). I tre intellettuali, che ben conoscono le realtà torinese, analizzano il periodo che va dalla prima giunta Castellani del 1993 fino alla cesura netta della giunta Appendino del maggio 2016.

È successo – mi si perdoni la sintesi troppo sbrigativa – che in quegli anni a Torino si è costituito un gruppo di potere che è durato l’intero arco di tempo indicato. Al centro il Pds, nato nel 1991, costituito anche sulla volontà di rappresentare, oltre ai lavoratori, altri settori della società italiana (e torinese) alleandosi con importanti rappresentanti del mondo bancario, alcuni settori del mondo accademico e delle professioni, col mondo imprenditoriale, espressione dei settori più tradizionali e meno innovativi.

Ventitré anni – tanto è durato al governo di Torino lo stesso blocco di potere – costituiscono un’eternità, così che, anche riconoscendo a quella esperienza qualche iniziale capacità di innovazione, si è venuta da tempo connotando per il conservatorismo asfittico in cui è piombata la città. Così ha imbrigliato sia la competizione che la cooperazione, gli strumenti caratteristici per consentire la crescita e l’affermarsi di approcci innovativi in ambito sociale e politico ed economico. Un’attività di governo dedita alla salvaguardia degli interessi particolari, riconducibili a quelli delle componenti il gruppo di potere.

Con il passare del tempo l’interesse politico e amministrativo è diventato sempre più distante da quelli generali, non fosse altro che per i tanti esclusi: singoli, professionisti, gruppi sociali e produttivi tagliati fuori dal patto di potere. Una pratica di potere lontana dalla dialettica, che ha scansato a tutti i costi il confronto basato sulle idee e sulle alternative, praticando la cooptazione come unica forma di selezione della classe politica cittadina. Si tratta di un modo di gestire il potere che ha formato stuoli di politici di bassa qualità, di scarsa utilità, a volte dannosi per le reazioni di rigetto che hanno saputo suscitare in larga parte della città.

Se non si facesse riferimento a questa storia recente della città e della regione non si spiegherebbe quello che sta avvenendo a Torino, protagonisti esponenti del Pd, sindaco Stefano Lo Russo in testa, e la giunta regionale di centrodestra, rappresentata dal presidente Alberto Cirio. L’oggetto è la realizzazione del Psri, il Parco della Salute della Ricerca e dell’innovazione, destinato a sostituire gli attuali tre ospedali delle Molinette, l’infantile Regina Margherita e il ginecologico Sant’Anna.

Di un nuovo grande ospedale a Torino si parla dal 1999. Nel 2003 il progetto ha preso la forma del Parco attuale, costituito dal Lotto 1, quello ospedaliero e della didattica universitaria, e dal Lotto 2, destinato a contenere le attività di ricerca e innovazione in campo diagnostico, terapeutico e farmacologico. Dopo un lungo e tortuoso iter, destinato a conciliare tutti gli interessi in gioco, all’inizio del 2019 la giunta Chiamparino, allora in carica, ha approvato lo studio di fattibilità e incaricato l’Azienda Ospedaliera Universitaria Città della Salute di Torino di indire la gara, applicando una procedura piuttosto lunga di cui ho già dato conto, per la realizzazione del solo Lotto 1, riducendo l’idea così l’idea del Parco ad un normale ospedale anche se grosso.

Nel giugno del 2019 è entrata in carica la nuova giunta regionale, guidata da Alberto Cirio, il quale, insieme al suo Assessore Icardi, non si è accorto che la gara in corso si stava incagliando a causa dell’aumento dei costi di costruzione. Così, dopo tre anni di chiacchiere, la stessa Regione ha chiesto al ministero della Sanità di concorrere all’opera con una quota ulteriore di finanziamento pubblico. E poi una proroga di altri 12 mesi per poter completare la gara in corso a fine 2023.

Qualunque persona dotata di un minimo di conoscenza delle procedure sa che la scelta più saggia sarebbe quella di revocare la gara in corso, ormai irrimediabilmente fuori tempo, per indirne una nuova, che comprenda la realizzazione di entrambi i lotti. Così il Parco della Salute e della Scienza diventerebbe davvero quel polo che Torino attende da così tanti anni che se ne è persa memoria.

A Trento, alle prese con un problema analogo con la gara per la costruzione dell’ospedale cittadino, qualche settimana fa hanno fatto proprio così, convinti che si farà prima e meglio. Invece il consigliere regionale del Pd propone che, in analogia all’esperienza della ricostruzione del ponte Morandi, il presidente della Regione Cirio venga nominato commissario in deroga a tutte le regole. La proposta nelle ore successive viene fatta propria anche dal sindaco di Torino Lo Russo.

C’è di che trasalire: Cirio, dopo che non ha fatto nulla per tre anni e mezzo per il Parco della Salute in qualità di massima autorità regionale, diventerebbe commissario per la sua realizzazione su nomina del ministero. Un bel cortocircuito, logico e politico. Si dimostra così che il blocco di potere torinese è ancora lì che opera e fa danni. Se la politica non saprà superarlo in fretta, continuerà il declino di Torino, che pure avrebbe tutto quanto altro serve per fare meglio e prendere in mano il proprio destino.

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