Poche ore e finalmente si vota, così la facciamo finita con questa campagna elettorale dai troppi volti ritoccati e dalle promesse tutte uguali. Anzi no, ne abbiamo ancora per altre due settimane perché tanto si sa già che nessuno dei candidati vincerà al primo turno. Girando per la città e parlando con chi capita a tiro sembra questo il sentimento prevalente a Torino.

Sotto traccia ce n’è un altro che rischia di rendere farlocche le percentuali dei sondaggi: Chiara Appendino, reduce da un mandato cominciato maluccio, continuato in modo accettabile e finito decisamente bene, ha deciso di non presentarsi. Se l’avesse fatto avrebbe potuto rivincere senza troppi sforzi, anche visti i competitor. Quel 40% di indecisi a due settimane al voto la dice lunga sui (mal)umori cittadini e fanno il paio con i bagni di folla della sindaca uscente nei mercati delle periferie, nonostante le redazioni cittadine dei tre quotidiani nazionali abbiano fatto a facciano ancora di tutto per accreditare l’immagine di una città “tradita”, proprio a cominciare dalle sue periferie (per chi non conosce Torino: nulla hanno a che fare con quelle romane!).

Nella scia di Chiara Appendino, con meno carisma, Valentina Sganga, capogruppo uscente del M5S, sostenuta anche dai Verdi di Europa Verde, protagonisti di una campagna elettorale spumeggiante all’insegna dei giovani e delle donne in lista con loro oltre che forti di proposte di impatto.

I due candidati “principali”, Paolo Damilano e Stefano Lo Russo, sembrano davvero intercambiabili, come cinque anni fa a Milano con Beppe Sala e Stefano Parisi. Damilano, partito per tempo e a lungo dato per vincente almeno al primo turno, è espressione di quell’imprenditoria subalpina sempre intrecciata col potere politico, capace di entrare e uscire dai diversi piani della jet society locale con la naturalezza di chi vi appartiene per diritto naturale.

Il secondo, già personaggio di seconda file nell’ultima giunta Fassino viene in questi giorni ricordato per aver chiesto la privatizzazione di GTT, l’azienda di trasposto pubblico di Torino e della sua area metropolitana, dopo che le giunte di centrosinistra avevano portato l’azienda sull’orlo del fallimento. Lo Russo è diventato il candidato del centrosinistra sconfiggendo gli avversari in primarie dalla partecipazione condominiale (poco più di 11mila votanti in una città da 900.000 abitanti) e neanche così è riuscito ad andare oltre il 37,5%, 4.200 voti.

Qualunque altro candidato, fra quelli scesi in campo, avrebbe ottenuto l’accordo con il M5S e non avrebbe fatto fuggire i Verdi, lui è riuscito in entrambe le imprese. È partito maluccio e continua così, forse confidando nell’effetto sommatoria delle tante campagne personali dei candidati delle liste che lo sostengono. Non riesce ad emergere nonostante sia indubbiamente più preparato del suo concorrente diretto che, nei giorni decisivi, sembra aver perso smalto e verve proprio nel corpo a corpo sui temi della città.

E così nessuno dei due dice che cosa vuole fare per dare una direzione a una città smarrita – ben consapevole che non si vive di solo turismo e che la FIAT non c’è più da un pezzo -, ma che continua ad affidarsi a quel ceto politico e imprenditoriale, con i suoi riti fintosabaudi celebrati da madame e damazze dai matrimoni roboanti, che millanta scommesse che non sa e non vuole giocare.

Un esempio recente è la vicenda dell’impianto europeo per la produzione delle batterie per le auto elettriche di Stellantis (qui a Torino si continua a leggere FIAT anche se ormai è passato remoto), poi finito a Termoli.

Durante la fase della scelta, tutta la città a spiegare che Mirafiori, il Politecnico, l’indotto auto, la tecnologia, le competenze eccetera rendevano Torino strategica e l’impianto si sarebbe proprio dovuto fare quassù. Fallito l’obiettivo, solo la sindaca ha provato a suggerire che, non essendoci solo Stellantis a produrre auto elettriche, quel meraviglioso sistema ex Fiat avrebbe potuto proporre le stesse condizioni e competenze alla concorrenza, anch’essa alla ricerca di siti “evoluti” dove localizzare le factory delle batterie.

Tutti zitti e buoni, giornali compresi, come se il controllo dell’Azienda sulla città non fosse mai finito, perché resta nei cuori e nelle teste di chi deriva da quella storia e in città è classe dirigente, in parte costituita dalle vittime delle epurazioni di Marchionne subito reclutati dalle giunte Chiamparino a produrre nel pubblico gli stessi guasti per cui erano stati cacciati dal privato.

Insomma, nulla di nuovo, il Sistema Torino, vecchio di trent’anni, ha due candidati entrambi buoni a cercare di rappresentare senza troppi scossoni quel gruppo di potere che cerca di tornare prepotentemente in gioco, felice che la stagione dei 5 Stelle abbia ridotto considerevolmente la mole dei debiti del bilancio cittadino, sgomberato e riqualificato l’ex villaggio olimpico divenuto con la giunta Fassino terra di nessuno con migliaia di disperati senza legge, tutti ricollocati in pace nel silenzio delle élites cittadine per le quali parlare di soldi e di clandestini è disdicevole in sé.

Solo che il Sistema Torino, vecchio di trent’anni, è morto e sepolto: la città paga l’immobilismo con la mancanza di prospettive, di quella visione che diventa progetto politico e trasforma la realtà. Torino aspetta che succeda qualcosa, forse ha capito che il Pd locale e i suoi satelliti, lungi dal rappresentare il cambiamento, sono abbarbicati alla conservazione di un potere che si è già sgretolato e che attende solo un officiante che ne celebri le esequie.

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