Si è tanto discusso, criticato e riso delle denominazioni identitarie, autarchiche e fantasiose date ai nuovi ministeri la primo governo di destra. Il Ministero del Mare, della Sovranità alimentare, della natalità e così via. A ben vedere, però, c’è ben poco da ridere. Per cambiare nome basta un tratto di penna, ci vuole però un decreto (o più di uno) sulle competenze per chiarezza su “chi fa cosa”, ed è proprio questo il primo nodo complicato che il governo Meloni è chiamato a sciogliere. Un nodo bello stretto su alcuni dicasteri dalle deleghe e funzioni ancora incerte, a partire da quella sui porti e sul coordinamento della Guardia Costiera cari a Matteo Salvini che li rivendica alle sue “Infrastrutture” e da quello del Mare che potrebbe rivendicarne a sua volta l’assegnazione. Ma lo stesso accade per il commercio estero, oggi in capo alla Farnesina e un tempo al Mise, la cui nuova denominazione (Ministero delle Imprese e del made in Italy ) lascia intravedere un travaso in direzione opposta.

Non si tratta più di giocare, la ricomposizione del puzzle addensa possibili tensioni anche su altre partite strategiche per il Paese, come la gestione del Pnrr, o la Transizione digitale rimasta orfana, il conflitto potenziale tra il dicastero del Sud e le politiche di coesione. Questioni tanto urgenti che nei giorni scorsi si ipotizzava già al primo decreto del Consiglio dei ministri, che si è riunito oggi, un “dl competenze” che facesse immediata chiarezza. L’incombenza invece è solo rimandata, con le incognite ancora inevase e il rischio che il tempo acuisca le lite. E’ plausibile infatti che serviranno molti giorni, tanti decreti, visto il garbuglio che si è andato a creare tornando alla Legge Bassanini del 1999, quella che rimodellò l’assetto dei ministeri, già oggetto di tanti interventi nell’arco dei 20 anni successivi, proprio per il continuo giocare di nomi e attribuzioni.

Si dovrà patire da quelli con portafoglio che hanno cambiato denominazione, per quelli senza basterà un Dpcm. Il ministero dello Sviluppo Economico, che diventa delle Imprese e del Made in Italy, affidato alle cure di Adolfo Urso dovrà per forza di cose ricevere le competenze in materia di cooperazione che ancora oggi sono affidate al Ministero degli Affari Esteri. Idem per il ministero delle Infrastrutture dove è approdato Matteo Salvini, che ancora ieri non dava per certo il trasferimento dei compiti sulla Guardia Costiera, fin qui affidati al Mit, o piuttosto al nuovo dicastero piuttosto che a quello del Sud e del Mare, affidato a Nello Musumeci. Su questo, stando ai retroscenisti de La Stampa, si consumerebbero scontri da giorni tra gli esponenti leghisti che lo rivendicano e Fratelli d’Italia, perché il veto a un bis di Salvini agli Interni era legato all’inopportunità di avere un ministro sotto processo per la vicenda Open Arms. Lo spostamento delle competenze al suo ministero sarebbe un modo poco nascosto per aggirarlo.

Tutto da chiarire il destino della transizione digitale, che divenne ministero come la Transizione energetica per scelta di Draghi che volle così imprimere maggiore forza alle politiche messe in campo per far vedere all’Europa che gli obbiettivi del Pnrr erano tanto seriamente spinti e vigilati da farci due ministeri intorno. Per il digitale il rebus è tutto per aria, per la transizione è stato annunciato oggi che l’ex ministro Cingolani rimarrà dalle parti di Palazzo Chigi, ma come consulente, garantendo così la continuità a una competenza in cerca di autore. Atro incrocio di competenze si registra tra Politiche di coesione, affidate a Raffaele Fitto insieme agli Affari europei. A Fitto sono attribuire le deleghe per il Pnrr, ma questo ruolo dovrà convivere con quello previsto sullo stesso versante per il ministero delle Infrastrutture e mobilità. Si è riso molto sui nuovi nomi autarchici e fantasiosi dei nuovi ministeri. Ma da domani non ci sarà nulla da ridere.

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