Portogallo, Germania, Spagna e California puntano su agevolazioni per i trasporti pubblici, energie rinnovabili, addio al carbone e fonti fossili. L’Italia è ferma, anzi va a passi di gambero

Ricordate l’abbonamento mensile a 9 euro per poter viaggiare in Germania su tutti i mezzi di trasporto pubblico nazionale, da bus a metro a treni, esclusi solo quelli ad alta velocità? Com’era prevedibile è stato un successo: 21 milioni di ticket venduti solo il primo mese, circa un tedesco su cinque che ha sostituito l’auto con il mezzo pubblico, col risultato, nei tre mesi di validità del ticket, di ben 1,8 milioni di tonnellate di CO2 non emesse in atmosfera (pari all’alimentazione energetica di 350mila abitazioni in un anno).

Certo, il costo per il governo – 4 miliardi di euro – è stato salato, ma il gioco è valso la candela, dai benefici per l’ambiente al sollievo economico per i tedeschi, anche loro come gli italiani alle prese con i rincari dei carburanti. E ora è allo studio il provvedimento per stabilizzare l’esperimento. Il punto è a chi addossarne i costi: governo centrale, governi regionali o entrambi? Al momento ci sarebbe un’intesa che prevede di dividere i costi: il governo federale è pronto a stanziare 1,5 miliari di euro all’anno se i Länder garantiranno una cifra analoga. La decisione finale è attesa in queste ore.

Anche la Spagna ha deciso di offrire treni gratis ai pendolari per tre mesi, mentre l’Italia si è limitata a proporre un bonus trasporti che non ha lasciato il segno sulle abitudini di mobilità dei cittadini. Del resto, come da tempo sottolineo anche in queste pagine, l’Italia non ha mai voluto imboccare la strada della transizione energetica ed ecologica con una visione strategica d’insieme.

Il dibattito degli ultimi mesi, tutto incentrato sui rigassificatori e l’emergenza gas, ne è la dimostrazione. La strada da perseguire deve essere invece quella di creare le condizioni strutturali – non a colpi di bonus una tantum – per liberarci dalla dipendenza energetica da gas metano e combustibili fossili. Purtroppo il caro energia (iniziato prima della guerra in Ucraina, forse come ritorsione verso l’accresciuta attenzione alle rinnovabili) e le tensioni internazionali che stanno scombussolando lo scacchiere europeo, anziché spingere a favore della fuoriuscita dai fossili come risposta dovuta all’altrettanto grave crisi climatica, hanno avuto l’effetto paradossale di rilanciare sui mercati il gas metano come “oggetto del desiderio” energetico.

Pur in questo quadro così problematico, nel mondo c’è però chi la transizione la sta facendo davvero. Il Portogallo, che produce il 60% di tutta la sua elettricità da fonti rinnovabili e ha deciso di chiudere le ultime due centrali a carbone, sta ulteriormente puntando sulle energie pulite con investimenti in nuove tecnologie, efficienza energetica e potenziamento delle reti ciclabili per favorire l’abbandono dell’uso dell’auto. Una politica che oggi fa del Portogallo il secondo produttore di energia eolica dopo la Danimarca, prossimo ad arrivare all’80% di elettricità da fonti rinnovabili entro il 2026.

Meglio ancora della Germania, che pure si è data il target dell’80% al 2030, un obiettivo decisamente ambizioso per la prima potenza manifatturiera d’Europa. Anche la Commissione Europea non è stata a guardare e, sempre al 2030, ha alzato l’asticella delle rinnovabili dal 40% al 45% sull’energia generata.

Oltreoceano la California, da decenni leader nella green economy energetica, si è data obiettivi sfidanti stanziando risorse adeguate: per raggiungere la neutralità carbonica nel 2045, ha varato un piano di investimenti da 54 miliardi di euro. Non tutto è condivisibile di questo piano, visto che l’attività dell’unica centrale nucleare in funzione è stata prorogata al 2030.

Sicuramente lo è il principio alla base della legge, ossia che bisogna smettere di inquinare e puntare sulle rinnovabili. I provvedimenti annunciati impegnano la California a tagliare almeno dell’85% le emissioni di gas serra entro il 2045. Sempre per quella data, per raggiungere la neutralità climatica le emissioni di gas serra residue (15%) dovranno essere compensate.

All’obiettivo di avere una generazione elettrica 100% green al 2045 ci si arriverà con due tappe intermedie: il 90% entro il 2035 e il 95% entro il 2040. Inoltre, tutti gli enti statali dovranno approvvigionarsi di energia da fonti rinnovabili al 100% entro il 2035.

L’Italia, purtroppo, non ha ancora un piano energetico nazionale strutturato per il contrasto al cambiamento climatico, né uno di adattamento. La transizione la stiamo facendo a parole, con 500 impianti di energia rinnovabile bloccati dalla burocrazia e 120 impianti legati alle fossili con procedure di autorizzazione avviate. I dati Istat riferiti ai primi otto mesi del 2022 sono impietosi: a causa del crollo dell’idroelettrico dovuto alla siccità, dalle rinnovabili sono arrivate 11 TWh in meno rispetto ad un anno fa.

Una differenza non compensata dall’aumento di 2,4 TWh della generazione elettrica da eolico e fotovoltaico, incomparabilmente inferiore all’incremento di ben 16 TWh di generazione da termoelettrico (fonte: Qualenergia). Questa l’eredità che lascia il governo Draghi. Né ho grandi speranze nella nuova maggioranza di destra uscita dalle urne che continua a baloccarsi con il miraggio del nucleare sicuro, ad oggi solo un esercizio teorico, mentre la tecnologia nucleare attualmente in funzione è stata definita dal Premio Nobel alla fisica Giorgio Parisi più vecchia del transistor. Rischiamo quindi un pericoloso ritorno al passato in ambito energetico.

E di questo passo rischiamo di perdere anche opportunità in campo economico, perché gli investimenti in energia rinnovabile generano non solo benefici ambientali, ma fanno crescere l’economia e l’occupazione. Lo confermano i dati di un recente report di Irena e Ilo-l’Organizzazione Internazionale del Lavoro: con una crescita di 700.000 nuovi posti di lavoro nel 2021, nonostante la pandemia e la crisi energetica l’occupazione mondiale nel settore delle energie rinnovabili abbia raggiunto la quota ragguardevole di 12,7 milioni di persone.

In Italia sembra ancora sfuggire la portata drammatica della crisi climatica già in atto: si continua ad invocare lo stato d’emergenza a danni avvenuti. È successo nelle scorse settimane prima con la siccità e poi con le – tragicamente puntuali – seguenti alluvioni. Una miopia che stiamo già pagando cara. E che ci costerà sempre di più se non si invertirà sul serio la rotta.

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