Cinema

Dante, il cinema libero e ancestrale di Pupi Avati che racconta il sommo poeta e fa centro al botteghino

di Davide Turrini

Pupi Avati più va avanti con gli anni più torna ad un cinema libero, ancestrale, tenebroso che somiglia a quello che lo contraddistinse nei primi anni di carriera. Il suo Dante, che dopo una settimana si trova improvvisamente sul gradino più alto degli incassi in Italia – davanti a Siccità e Don’t worry Darling – è un film ampiamente riuscito, sporco e mefitico, viscerale e poetico. Un Dante molto terreno, non più mitizzabile nella sua stanca benignesca ripetizione ad oltranza, quello immaginato e realizzato da Avati. Un Dante figlio della miseria e della strada, immerso nel fango del volgo due/trecentesco fiorentino, travolto attorno a sé e su di sé dalle pustole della peste e dalle ferite della scabbia.

Dante è una sorta di spin off di quel Magnificat che Avati girò nel 1993, film storico medioevale dove il fioco lume del sacro si fondeva con la ombre del maligno, intensificando il concetto bachtiniano del “basso materiale-corporeo”. Dante, appunto è come fosse spuntato da lì. Visivamente crudo, a suo modo violento, autenticamente volgare (il culo di Dante che fa la cacca prima della battaglia contro i ghibellini o che va a prostitute prima di dormire), il film di Avati si sviluppa attorno ad un tentativo di ricostruzione della vita del sommo poeta effettuata da Boccaccio (Sergio Castellitto) nel 1350, quasi trent’anni dopo la sua morte, con l’autore del Decameron che deferente e devoto cerca di riconsegnare, giaciglio di fortuna su giaciglio di fortuna, dieci fiorini d’oro di risarcimento simbolico dell’ingrata Firenze, a Beatrice, figlia dell’esiliato Dante, suora silente in un convento del ravennate.

La possibilità per Avati è ghiotta per rievocare alcuni episodi salienti della vita dell’Alighieri giovane (Alessandro Sperduti), a partire dallo scambio di sguardi e alla propagazione di ardore tra il poeta e l’osannata Beatrice (Carlotta Gamba), la complessa e suicida posizione politica antipapale, fino al tormento dell’esilio e alla stesura della Divina Commedia. Avati procede a piccoli strappi, stratificate emulsioni di marrone e ocra, abiti stracciati, sporchi e macilenti, amicizie che si screziano torbide nell’opportunismo individuale e quel rapporto d’amore con l’amata che vibra nei versi celebri che tutti conosciamo ma anche in visioni allucinate di tentazione diabolica (c’è anche un cuore masticato e sanguinante alla Robert Eggers) che favoriscono una topica del cinema avatiano, il sesso che si insinua mefitico come senso di colpa. L’humus mortuario che permea, nonostante i lampi gemmati di rime e versi, il film è infine evidente sia nel dipingere l’oscurità medioevale senza sconti materiali oltre la timorosa spiritualità, ma anche nell’atto finale della composizione poetica del protagonista che finisce per essere “un libro solo di morti”. Avati infila anche un paio di numeri nella messa in scena: una specie di campo e controcampo appena dopo la morte di Dante tra l’inquadratura del cielo stellato e del coro sghembo e imbruttito a testa in su; l’ “animazione” con i visi degli attori in un vero dipinto (ci sfugge il titolo, chiediamo venia) con Giovanni XXII che celebra con piacere la morte dell’eretico Dante. Castellitto trattiene, e allo stesso tempo intensifica fino al limite, la devozione boccaccesca arginando ogni possibile slabbratura da doppio piano temporale. Camei infiniti, ne citiamo alcuni: Enrico Beruschi, Leopoldo Mastelloni, Mauro Coruzzi/Platinette, e il compianto attore feticcio avatiano Gianni Cavina.

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