“La letteratura medica, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, non consente di affermare la sussistenza di una ‘correlazione causale’ tra inquinamento ambientale-atmosferico e tumori del sistema nervoso centrale, e segnatamente, dell’astrocitoma”. È quanto si legge nelle motivazioni della sentenza con cui il giudice Pompeo Carriere ha scagionato nove dirigenti dell’ex Ilva di Taranto finiti nell’inchiesta per la morte del piccolo Lorenzo Zaratta, bimbo di soli 5 anni, ucciso il 30 luglio 2014 da un astrocitoma e divenuto simbolo della lotta all’inquinamento nel capoluogo ionico. a distanza di circa un mese dalla lettura del dispositivo il giudice Carriere ha depositato le motivazioni della decisione spiegando che “permane un’insuperabile situazione di ragionevole dubbio circa l’effettiva sussistenza del nesso causale fra la presunta condotta ascritta agli imputati e il decesso del piccolo Lorenzo”.

GLI STUDI – L’indagine era partita dopo gli studi che i consulenti dell’avvocato Leonardo La Porta che assiste la famiglia di Lorenzo, avevano portato avanti accertando la presenza di ferro, acciaio, zinco e persino silicio e alluminio nel cervello del bambino. Antonietta Gatti, fisico e bioingegnere, autrice di una serie di analisi sui campioni biologici del piccolo Lorenzo, aveva parlato di caso “emblematico” perché “trattandosi di un bambino la cui patologia tumorale si è resa manifesta nei primi mesi di vita quando le esposizioni ambientali sono molto limitate se non quasi nulle stante lo stile di vita caratteristico dell’età”: la causa, quindi, secondo Gatti, era “da ricercare nell’esposizione della madre durante la gravidanza”. Un secondo studio a firma di Annamaria Moschetti, pediatra e presidente della Commissione Ambiente dell’Ordine dei Medici di Taranto, e di Leonardo Resta, professore di anatomia patologica presso la facoltà di Medicina dell’Università degli Studi di Bari, aveva inoltre evidenziato “il livello di inquinamento al quartiere Tamburi durante i primi tre mesi di gravidanza – da novembre 2008 a gennaio-febbraio 2009 – sottolineando gli eccessi di sostanze come benzoapirene e polveri sottili”.

GLI ABITANTI PIÙ ESPOSTI DEI LAVORATORI – Gli studi, secondo il giudice Carriere hanno chiarito che in quegli anni, la mamma di Lorenzo, si è trovata “nella medesima situazione di esposizione” dei lavoratori dello stabilimento e, rispetto ad alcuni di loro, “paradossalmente, in situazione – scrive il magistrato – perfino peggiore”. La vastità della fabbrica ex Ilva infatti, rende alcune zone del quartiere Tamburi più vicino alle fonti inquinanti di zone interne allo stabilimento che però si ritrovano a chilometri di distanza da quelle sorgenti velenose. La zona in cui la mamma di Lollo, ha trascorso, per motivi di lavoro, otto ore al giorno per cinque giorni a settimana, nei primi quattro mesi di gestazione del piccolo Lorenzo, è “praticamente attaccata o comunque a ridosso del perimetro dello stabilimento” al punto da esporre la donna “alla diffusione incontrollata di polveri e sostanze inquinanti provenienti dall’attività del siderurgico” che è “sostanzialmente analoga a quella di molti lavoratori operanti all’interno del grande complesso industriale”. Ma la semplice esposizione non basta a dimostrare che quel tumore – l’astrocitoma – sia stato causato dall’inalazioni di polvere che la donna ha poi trasferito al festo durante la gravidanza. Eppure nel corpo del bambino sono state ritrovate particelle di dimensioni talmente grandi che secondo gli esperti non potrebbero neppure essere inalate per via respiratoria. Un mistero, insomma, rimasto al momento senza spiegazione.

LE CAUSE NOTE – Allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, scrive il giudice Carriere nelle 42 pagine della sentenza, le uniche cause note dell’astrocitoma sono la “predisposizione genetica ereditaria” e le “radiazioni ionizzanti” cioè raggi gamma e raggi X “sia con finalità terapeutica che diagnostica”. Queste due cause, però, negli studi rappresentano solo il 10 percento dei casi: come ammesso anche dal consulente tecnico della procura, “il 90 percento delle cause dell’astrocitoma ad oggi sono ignote“. Il giudice Carriere ha spiegato che “in questo 90 percento di cause ignote potrebbe (e mai come in questo caso è d’obbligo il condizionale) esservi anche l’esposizione prenatale a situazioni di inquinamento ambientale -atmosferico» come le «attività produttive quali quelle del siderurgico”, ma si tratta “allo stato, di una mera ipotesi” presente solo “in pochi studi di letteratura e che viene formulata sulla base di associazioni statisticamente ‘deboli’ ossia non significative, o che viene presentata come necessitante di ulteriori studi per essere confermata”. Insomma nessuno studio, al momento, può sostenere che vi siano “responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio” per condannare gli imputati e neppure “ragionevole previsione di condanna” per avviare un processo.

IL FATTORE EREDITARIO – Un’altra causa alternativa oggi nota a livello scientifico è quella delle “sindromi genetiche ereditarie”. Gli dagli studi fatti finora è emerso che i genitori di Lorenzo hanno “una maggiore predisposizione genetica allo sviluppo di tumori” a causa della mutazione di alcuni geni che agiscono sulla tossicità di inquinanti come il benzene o il benzoapirene. E proprio durante i primi mesi di gravidanza Taranto era in piena emergenza per le emissioni oltre i limiti di questa sostanza cancerogena. Ma la scienza segna una differenza netta tra una predisposizione, come nel caso dei genitori di Lorenzo, e vere e proprie “sindromi genetiche ereditarie”. Inoltre anche nel caso di predisposizione genetica ereditaria a sviluppare forme tumorali, richiede a sua volta l’esistenza di una precedente causa: in questa ipotesi, quindi, le predisposizioni genetiche costituirebbero per il piccolo Lorenzo “soltanto una ‘concausa’” mentre per la condanna degli imputati è doveroso ricercare la “causa scatenante vera e propria”.

I DOCUMENTI DELL’ACCUSA – Nella sua sentenza, il giudice Carriere ha bacchettato più volte l’operato dell’accusa. Per l’individuazione dei responsabili, ad esempio, gli inquirenti non hanno verificato fino in fondo i ruoli ricoperti dalle persone inizialmente indagate: due loro in particolare, Giancarlo Quaranta e Giuseppe Perrelli, nel periodo in esame avevano già lasciato l’incarico di responsabili di alcune aree. Non solo. “L’impostazione dell’accusa – scrive il giudice – è stata in sostanza quella di rifarsi semplicemente alle risultanze della perizia chimica ed epidemiologica svolta con le forme dell’incidente probatorio nell’ambito del procedimento” ribattezzato Ambiente svenduto e in particolare alla prima delle due relazioni. Il collegio di difesa, composto dai legali Enzo Vozza, Gaetano Melucci, Carmine Urso, Pasquale Annicchiarico, Pasquale Lisco e Alessandra Tracuzzi, invece ha fornito una valutazione aggiornata di quei dati emersi nel corso del maxi processo che hanno evidenziato come, in alcuni casi, i periti del gip Patrizia Todisco abbiano effettuato sulla stima di emissioni riferita alla massima capacità produttiva dell’impianto e che in alcuni casi quelle stime sono risultate “erronee in eccesso”. Il giudice Carriere, insomma, “ha avuto a disposizione, per così dire, esclusivamente uno ‘spaccato’ del materiale probatorio versato nel parallelo maxi-procedimento celebratosi in Corte d’assise, sulla base della selezione che le parti (accusa pubblica e difesa) hanno inteso effettuare, ciascuna (ovviamente) per i propri fini e per coltivare le proprie tesi; si vuol dire cioè che lo scrivente, per forza di cose, non ha potuto avere a disposizione l’integralità degli elementi probatori acquisiti in quel processo e non ha potuto pertanto avere il relativo sguardo d’insieme (sulla base del quale, per quel che qui rileva, la Corte d’assise ha pronunciato sentenza di condanna di primo grado anche per i delitti di disastro ambientale e di avvelenamento di acque e sostanze alimentari)”.

LA DECISIONE – Anche la ricerca e l’aggiornamento di tutti i dati, però, non sarebbe bastato a cambiare l’esito del procedimento per la morte di Lorenzo dato che, come ha ammesso anche il consulente dell’accusa, “permane un’insuperabile situazione di ragionevole dubbio circa l’effettiva sussistenza del nesso causale fra la presunta condotta ascritta agli imputati e il decesso del piccolo Lorenzo Zaratta”. Ed è per questo che nelle ultime righe del suo provvedimento, il magistrato ha messo nero su bianco che “pur con tutta la comprensione umana per la terribile vicenda della famiglia del piccolo Lorenzo, questo giudice non ha potuto far altro che applicare le norme di diritto sostanziale e processuale” scagionando tutti gli imputati dalle accuse. E se per Quaranta e Perrelli il proscioglimento è con formula piena, non aver commesso il fatto, per tutti gli altri è con la formula dubitativa: Luigi Capogrosso, ex direttore dello stabilimento Ilva, e i dirigenti Marco Andelmi, Ivan Di Maggio, Salvatore De Felice, Salvatore D’alò e Giovanni Valentino, e Angelo Cavallo, quest’ultimo unico imputato ad aver scelto di essere giudicato con rito abbreviato, sono stati scagionati perché il fatto non sussiste.

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