Uno dei temi di maggior fascino del nostro tempo è certamente quello dell’intelligenza artificiale, dei suoi possibili sviluppi e future applicazioni. Sebbene il rapporto con la tecnica sia un argomento tutt’altro che nuovo (cui si sono dedicati filosofi come Martin Heidegger, registi come Fritz Lang e grandi scrittori di fantascienza) la relazione uomo-macchina non ha mai smesso di appassionarci, conquistando l’immaginazione del grande pubblico grazie a libri e film d’intrattenimento.

Nella maggior parte delle produzioni, la narrazione si snoda intorno all’ambiguità delle creature artificiali, al distacco dal creatore ed al loro divenire più o meno ostili. In pellicole come Blade Runner o Ex Machina viene indagato il tema dell’emancipazione dal padre. In film come Terminator o Matrix l’intelligenza artificiale diviene ostile, mentre in serie come Person of Interest è utilizzata per eliminare la povertà dal mondo. In ogni caso, qualunque sia la variante del racconto, queste tematiche ricorrono sempre, poiché visceralmente connesse al potere di generare ed alla sotterranea paura delle conseguenze di un atto che, forse noi stessi, sentiamo oltrepassare l’ordine naturale delle cose.

Sebbene sia inevitabile che a livello popolare il tema del rapporto con l’intelligenza artificiale si consumi intorno a suggestioni che devono necessariamente tradursi in azione (battaglie, duelli, ecc) vorrei suggerire un’altra angolazione da cui osservare il problema. Quando si parla di I.A. l’interesse cade sempre sulla A di artificiale. La nostra fantasia inizia a spaziare ed immaginare robot, macchine ed astronavi, finendo col dare per scontata quella I di intelligenza, come se dell’argomento avessimo davvero una reale padronanza. Quando alziamo gli occhi al cielo, restiamo folgorati dalla bellezza di un luogo così vasto e imperscrutabile. Eppure, se abbassando per un attimo lo sguardo osservassimo il buon vecchio mare, scopriremo che degli abissi sappiamo forse meno che del cosmo. Analogamente, interessarsi oggi di intelligenza artificiale, significa prima di tutto rimettere a fuoco proprio il concetto di intelligenza.

Su cosa voglia dire infatti artificiale, non credo ci siano grandi dubbi. Consultando invece articoli e saggi sul tema dell’intelligenza, appare evidente che attorno a questa definizione si consumano visioni talvolta opposte. Cito solo due esempi rappresentativi: il primo è Educazione e sviluppo della mente. Intelligenze multiple e apprendimento di Howard Gardner, testo in cui si sostiene che esistano molte forme di intelligenza (logica, musicale, ecc). Il secondo è Intelligenza di Ian J. Deary, nel quale la stessa è vista piuttosto come una sorta di riserva indeterminata che può essere applicata a diversi scopi. Al di la delle peculiarità di ogni approccio, è impossibile non constatare che più si approfondisce il tema, più si ha la sensazione di trovarsi davanti ad una esplorazione in fieri.

L’immagine che mi viene in mente è quella del topo-scienziato che vaga nel labirinto cercando di osservarsi contemporaneamente anche dall’alto. In altre parole, grazie alla nostra intelligenza cerchiano di capire cos’è l’intelligenza. Grazie ad essa, inoltre, vogliamo dar vita a macchine pensanti. Tuttavia, se non c’è accordo su cosa sia l’intelligenza umana, come possiamo definire intelligente un’automa che si basa, per altro, su schemi inseriti da noi? E che senso ha, a maggior ragione, paragonare il cervello umano (di cui non sappiamo ancora molte cose) con circuiti e transistor?

Dopo anni di intrattenimento e semplificazioni, temo che il dibattito su I.A. si sia spinto in una direzione che rischia di diventare presto improduttiva ed autoreferenziale. E proprio quando si marcia così velocemente verso il futuro, un buon modo per rimettere a fuoco il presente è proprio quello di fare un passo indietro. In tal senso, un buon punto di ri-partenza potrebbe essere la conferenza che il filosofo Carlo Sini, forse l’ultimo dei grandi maestri, ha dedicato al tema dell’intelligenza artificiale e dell’automa. In questi casi, più che la scienza o la tecnica, la sola materia che può davvero aprire nuovi orizzonti è la filosofia.

Per Sini una macchina non può possedere un’intelligenza o apprendere, ma solo effettuare delle operazioni previste dall’uomo. Una macchina non può scrivere la Divina Commedia, comporre il Parsifal o dipingere la Morte della Vergine. Essa è precisa nel misurare se il bicchiere e mezzo pieno o mezzo vuoto, ma non potrà mai ribaltare i termini del problema chiedendosi cosa c’è nel bicchiere, o perché un bicchiere. Le macchine non tramano contro di noi, l’unico eventuale pericolo è la nostra incapacità di usarle correttamente. Ma, è bene ricordarlo, usare male una macchina non significa in ogni caso che essa divenga il soggetto di un’azione. L’idea che le macchine pensino o abbiano intenzioni è una suggestione comprensibile solo se rapportata a persone inesperte. Ciò che per Sini rappresenta quindi un reale pericolo è che a credere a simili superstizioni naturalistiche (ben descritte da Edmund Husserl) siano proprio degli scienziati, convinti che i robot possano davvero essere intelligenti.

Concludo, con una provocazione che non è forse tale fino in fondo. Nel saggio L’Abbandono del 1959 Martin Heidegger scriveva: “Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca”.

Le macchine non possiedono un pensiero meditativo (evolutosi con noi per millenni) quindi un paragone con l’uomo le renderà sempre ridicole, come nei film di Chaplin. Tuttavia, continuando sulla pericolosa strada di voler somigliare noi alle macchine, il discorso cambia radicalmente. Heidegger definiva infatti denken als rechnen (pensiero calcolante) quel pensiero che sa solo far di conto, valutando esclusivamente utilità e quantità. Un pensiero terribile in base al quale il bosco non è più un luogo magico, ma una riserva di legno. Il cielo non è più la dimora degli angeli, ma un ente da cui attingere energia. Il fiume non è più una liquida rappresentazione del tempo, ma una risorsa da massimizzare. Vittima di questo pensiero tirannico e volgare siamo tutti noi, riconosciuti solo in base al nostro ruolo (quali funzionari di apparato) e valutati esclusivamente in termini di efficienza e funzionalità. Se come uomini, è questa la sola forma di pensiero che ci rimane (e qui sì che gli automi ci sono superiori) allora le macchine hanno già vinto. Su questo terreno infatti, come ebbe modo di scrivere Gunther Anders, siamo semplicemente inadatti, inferiori ed antiquati.

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