di Alberto Siculella

Non passa giorno senza un imprenditore che inveisce contro il reddito di cittadinanza o uno chef che accusa i giovani di scarsa propensione al lavoro. Come stanno davvero le cose? Al netto di posizioni ideologiche prive di logica, bisogna analizzare la questione per capire che non tutto può essere ricondotto ad un duello tra imprenditori illuminati o criminali e tra lavoratori schiavizzati o parassiti.

E’ inutile dire che le dinamiche del mercato incidono e di molto. Davanti ad un’esplosione del settore della ristorazione e della ricettività, rispettivamente +30% e +40% nell’ultimo decennio, non c’è stato pari aumento di risorse umane da integrare nei relativi ambiti. Il digitale poi ha spostato molte risorse su nuove mansioni, difficili da osservare perché in un mercato nuovo e complesso da individuare.

Per anni si è pensato che non servisse formare il personale di sala, receptionist, aiuti cuoco, bancone e via dicendo. Fornendo un servizio spesso scadente, con salari approssimativi, in un contesto poco gratificante. Da qualche anno i settori di riferimento vivono una crescita quantitativa e qualitativa e perciò, oltre che a mancare numericamente il personale, manca soprattutto quello formato ed appassionato. Ciò dipende anche dal forte turnover, dalla stagionalità e dalla precarietà dell’impiego.

Non tutti gli imprenditori pagano una miseria come non tutti pagano bene. Non tutti i giovani sono sfaticati o mantenuti come non tutti sono predisposti al lavoro. Al di la di questa conflittualità sociale, sono in corso cambiamenti epocali, tra cui la great resignation (rassegnazioni di massa) e la nomadizzazione del lavoro.

Con la prima si intende quel distacco dal mondo del lavoro che in milioni di persone stanno attuando tramite dimissioni volontarie, in cerca di un lavoro meno impegnativo e meglio pagato. Naturale conseguenza di una presa di coscienza, maturata in anni in cui si è lavorato sempre più, sempre peggio, con tante imprese che hanno pianto miseria accumulando ricchezza ed erodendo diritti e tutele sociali, economiche, ambientali.

Con la seconda, si intende un mondo di lavoratori e di lavori, che iniziano a non avere un perimetro in termini di luoghi fisici, e in termini di condizioni di lavoro. Viaggiano, sono collegati al web, lavorano da remoto, per lo più in ambito digitale o digitalizzando la loro attività. Influencer e youtuber a titolo esemplificativo.

Non è una questione di reddito di cittadinanza, il problema del personale c’era anche prima dell’introduzione della misura. Il reddito di cittadinanza di fatto è un credito, spendibile e non cumulabile, non genera perciò né risparmi né ricchezze. E’ sospendibile per il periodo in cui si lavora e riattivabile quando si rimane disoccupati.

In molti lavoratori hanno alzato le pretese in termini di salario e di tempo libero. In alcuni casi trattasi di poca dedizione, in altri, più spesso, di necessità di trovare risposte ad una precarizzazione schiacciante, il cui modello non lascia scampo: il più possibile e subito.

Dall’altro canto il frastuono mediatico delle critiche contro il reddito di cittadinanza si scontra con una realtà molto diffusa. Contratti part time da 20 ore dichiarate, 40 lavorate, e la differenza, retribuita in nero, a meno di 4 euro/ora. Mansioni spesso svolte 7 su 7, senza giorno di riposo. Sì, c’è anche questo e c’è di più.

Combattere la precarietà, alleggerire la fiscalità, regolamentare i nuovi lavori e rendere più efficiente l’incontro tra domanda e offerta del mercato del lavoro, abbracciare una vera cultura d’impresa, proporre visioni, dare prospettive, formare e specializzare le risorse umane, è il primo passo da compiere. Decisamente più sensato delle polemiche in salsa Santanchè, decisamente più utile del piangersi addosso o del vivere alle spalle dei propri genitori.

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