Cultura

Morto Paul Ginsborg, aveva 76 anni. Addio all’inglese che raccontò la ricostruzione democratica dell’Italia

Era nato a Londra il 18 luglio del 1945. Dal 1992 insegnava storia dell'Europa contemporanea alla Facoltà di Lettere dell'Università degli studi di Firenze

di Davide Turrini

L’inglese che raccontò la ricostruzione democratica dell’Italia e che la difese coi “girotondi”. Lo storico Paul Ginsborg è morto. Aveva 77 anni. Molti italiani lo ricorderanno a livello di cronaca politica perché questo signore distinto, dall’ovale ottocentesco e dall’eloquio screziato da un’intramontabile accento british, era diventato uno dei rappresentanti più intervistati e riconosciuti dalle telecamere tv per la sua partecipazione attiva al movimento dei Girotondi che nel 2002 si formò in chiave antiberlusconiana. Solo che Ginsborg, docente di Storia contemporanea all’Università di Firenze, andrebbe ricordato soprattutto per Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi (Einaudi) un saggio importante, e a suo modo per nulla paludato, nel raccontare la rinascita del nostro paese dal 1945 fino alla fine degli anni settanta. Il libro suscitò una notevole attenzione tra gli storici e negli anni novanta divenne libro di testo per molti studenti universitari italiani che si occupavano di storia e di politica. L’aspetto distintivo e di valore analitico di quel volume derivò dal fatto che Ginsborg mescolò nuovamente gli ingredienti della storia d’Italia – la Resistenza, la nascita della Repubblica, l’affermarsi della DC, il miracolo economico, i governi di centrosinistra e il ’68 – in chiave integrata tra aspetti sociali (in particolar modo l’affermarsi del nucleo socio antropologico della “famiglia” su cui tornò con Famiglia Novecento e L’Italia del tempo presente sempre con Einaudi), economici e più meramente storico aneddotici. Anche a livello metodologico Ginsborg non si era fermato alla solita minestra riscaldata del susseguirsi di dati e fatti, bensì aveva avuto l’ardire di attingere a documenti ufficiali parlamentari, a ragionamenti sociologici, ed anche a tracce di storia orale. Insomma, una sorta di antitesi alla spettacolarizzazione dei grandi personaggi che fecero la storia alla Denis Mack Smith. Poi certo il berlusconismo provocò l’ira funesta di una classe media intellettuale in Italia che divenne presto movimento politico e di pressione soprattutto rispetto ai temi del campo giudiziario. Berlusconi divenne per un periodo di tempo oggetto d’analisi sociologica per Ginsborg tanto da dedicarci a cavallo dei primi anni duemila un paio di volumi: Berlusconi. Ambizioni patrimoniali in una democrazia mediatica (Einaudi) e Berlusconismo (Laterza). Proprio negli anni dell’ “engagement” di piazza, quando addirittura i giornali parlarono per i girotondi di “quarto polo” nell’arena elettorale, lo storico inglese che amava la democrazia italiana (“in democrazia la maggioranza ha il diritto di governare e di attuare il suo programma, anche se discutibile, ma non può utilizzare la sua vittoria elettorale per cambiare i fondamenti della Repubblica”), mostrò in varie interviste come l’anomalia berlusconiana fosse solo l’apice di una mutazione liberista e antisociale in corso in Italia. In una delle tante interviste che fioccarono su ogni testata tra il 2002 e il 2003 Ginsborg spiegò così il minuzioso e graduale smantellamento della democrazia progressiva ed egualitaria del nostro paese prendendo ad esempio il settore scolastico: “Venendo alla scuola colpisce che in Italia non ci sia la netta divisione di classe che caratterizza, per esempio, l’istruzione nel mio Paese, l’Inghilterra, dove le scuole private (chiamate per ironia ‘public school’), offrono alla borghesia che può permetterselo una istruzione nettamente superiore a quella della scuola statale. La privatizzazione è un sistema puramente classista e, pur con tutti i difetti, la scuola pubblica italiana ha avuto il pregio di evitarlo. E l’Italia dovrebbe esaltare questo ed altri pregi entrando in Europa. Quel che mi fa più rabbia è che si cerca di ricalcare il reaganismo e il thatcherismo di vent’anni fa proprio nel momento in cui si discute e si riflette sui guasti provocati dalla privatizzazione, per esempio nelle ferrovie inglesi”. Insomma, riflessioni alla Luciano Gallino, per intenderci. Infatti superato Berlusconi, l’avversione intellettuale e la lotta politica di Ginsborg mutarono faccia ma non segno: il nuovo pericolo era proprio quel Matteo Renzi, sindaco della città dove lo storico aveva insegnato per decenni. Insomma il connubio mortale Pd- Forza Italia che il professore esemplificò con grande efficacia così: “Io vivo in Toscana e vedo quotidianamente quanta accondiscendenza c’è verso il leader, verso tutto ciò che viene dall’alto. Lo spirito critico difetta. Ma non stupiamoci, è un atteggiamento che viene da lontano: “Compagni, è cambiata la linea!”, il caro vecchio centralismo democratico. Penso che ci siano elementi di ubbidienza cieca, passati dai padri ai figli”. Così se il macrodifetto della sinistra italiana secondo il professore di origine inglese era quello di non essere riuscita a dare politicamente ed elettoralmente risposte alla classe media del paese, il suo sguardo da straniero in Italia gli fece sottolineare il sempiterno problema del potere politico legato alle risorse pubbliche da elargire. “Dirò una cosa antipatica: in tanti settori – della cultura, alla giustizia e alle professioni – tutto passa attraverso il potere. Se il Pd esercita un dominio vasto, si aspetta e ottiene fedeltà. In Inghilterra le risorse che la politica può distribuire sono molto meno”. Nel 2010 e poi nel 2016 Ginsborg pubblicò due volumetti Einaudi della collana Le Vele. Il primo, più spurio, s’intitolava Salviamo l’Italia dove provava a suggerire nuovi rivoli utopici in cui far scorrere la linfa vitale per “salvare la nostra patria” – “l’esperienza dell’autogoverno urbano, l’europeismo, le aspirazioni egualitarie e l’ideale della mitezza” -; poi, appunto, di fronte al disfacimento della sinistra, intesa qui nella declinazione italiana di un largo compromesso storico ideologico progressista, Ginsborg pubblicò Passione e politica dove rese concreto il fantasma del neoliberismo livellatore di ogni alternativa sociale e di sistema (il There Is No Alternative di draghiana memoria), per una sorta di pamphlet più buio e pessimista rispetto alla baldanza girotondina di vent’anni prima con cui si fece pubblicamente e politicamente conoscere. In Passione e politica Ginsborg esordisce ragionando attorno al fatto che il neoliberismo non governa solo l’economia, ma soprattutto l’interiorità e l’intimità dell’individuo – le passioni, il consumo, il tempo libero, il culto narcisistico fine a se stesso – distruggendone il senso sociale e collettivo. Insomma la lezione che Ginsborg aveva intessuto senza pari con Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi si era quotidianamente arricchita delle trasformazioni socioculturali in atto, con il finale nefasto, duraturo e apparentemente non scalfibile del nuovo moloch, del nuovo Leviatano ideologico contro cui non esiste più ribellione: il neoliberismo. Nel 2019 Paul Ginsborg era stato eletto presidente dell’associazione Libertà e Giustizia, succedendo a Tomaso Montanari.

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