“Volete un pezzo di me?”. Così cantava Britney Spears nella sua Piece of me, hit fatta uscire in uno dei momenti più controversi della vita della pop star americana; quel periodo passato a far baldoria con Paris Hilton, quando in preda a un raptus si radeva i capelli a zero, aveva crolli emotivi e sfasciava parabrezza davanti ai fotografi, che continuavano a immortalare i pezzi della sua vita (e del suo corpo) con la stessa empatia di un documentarista davanti a un leone che sbrana una gazzella.

Il femminicidio di Carol Maltesi è un altro esempio di “narrazione a pezzi”, dove i protagonisti non sembrano persone intere, ma appunto delle schegge di personalità. Un fatto di cronaca e una tragedia decisamente mal raccontata, non solo per l‘iniziale imbarazzo di associare la parola “attrice porno” a “femminicidio”, ma anche per tutto il resto. Facciamo un passo indietro. Iniziamo dai social: Instagram (dove avrebbe conosciuto il suo carnefice) e Onlyfans.

Carol era una donna di 26 anni di origini italo-olandesi, madre di un figlio di cinque anni ed ex commessa. Nel 2019 e nei successivi due anni della pandemia, ha passato come molti di noi un lungo periodo chiusa in casa: lei, i social e il suo lavoro di creatrice di contenuti per Onlyfans (sito che permette di guadagnare condividendo video e foto, anche molto intimi, con una cerchia “ristretta” di abbonati paganti). Molte persone, coppie soprattutto, si avvicinano così al mondo dell’hard, producendo immagini casalinghe rigorosamente in pov (point of view), dove a essere inquadrato è principalmente il corpo della donna, anzi, i pezzi del corpo della donna. Alcuni “creatori” di Onlyfans escono anche dal circuito amatoriale e partecipano a film professionali e a spettacoli nei night.

Carol aveva da poco, pare, iniziato a far parte del club mainstream dell’intrattenimento per adulti. Molti si sono chiesti come è possibile decidere di condividere immagini così intime con gli altri. Ma non è così strano. Instagram e Tik Tok hanno creato da anni una fiorente pornografia del quotidiano: immagini del cappuccino con cornetto della mattina, la sessione di palestra a metà pomeriggio, foto del succo di frutta o del cocktail, il disegno di nostro figlio, il libro che stiamo leggendo, l’outfit della serata, il pigiama, il panorama dalla nostra camera, il gatto. Tutte parti di noi che spezzettano la percezione di chi siamo realmente, frantumano la nostra identità, per chi ci guarda ma anche per noi stessi.

Anche Davide Fontana, l’assassino di Carol, era un uomo a pezzi. In molti sensi. Bancario, foodblogger, appassionato di fotografia e video. Quando conosce Carol in rete lascia la moglie per stare con lei, lascia Milano e va a vivere in una palazzina rustica con ballatoio in un paese di provincia per starle accanto. Inizia a partecipare ai suoi video, è lui l’uomo dietro al cellulare. E già, in un certo qual modo, la fa a pezzi. Non gli va bene il rapporto aperto, ma ci sta. Però Carol non può andarsene, non deve andarsene, non può sparire. Perché la sua vita, già in pezzi, crollerebbe del tutto. Tuttavia la donna vuole trasferirsi, andare a vivere in Veneto vicino al figlio di cinque anni (che vive con il padre). No, non può. Così durante l’ultimo filmato amatoriale Davide l’ammazza, “un gioco erotico finito male” dice, mentendo agli inquirenti. Un femminicidio premeditato, sembra, invece.

La tramortisce con un martello, la sgozza e poi la fa a pezzi per metterla in un congelatore e la tiene accanto a sé per 70 giorni. Nel frattempo s’impossessa di quello a cui anelava di più: l’identità di Carol, il suo telefono e la sua auto. Inizia a scrivere ai parenti per rassicurarli, a messaggiare con il padre di lei residente in Olanda, gli fa persino gli auguri di compleanno. Perché a lui una vita sola non basta. Essere una persona sola, non ci riesce.

Alla fine si libera del cadavere, lo butta in un dirupo in Valcamonica, in un posto dove andava in vacanza da bambino. Lì ha persino il tempo di ridiventare “L’uomo alla coque” (la sua identità di foodblogger) e di recensire l’hotel con Spa dove ha soggiornato durante l’occultamento del cadavere.

Il corpo di Carol viene ritrovato, a pezzi appunto, e sono sempre dei frammenti che permettono il suo riconoscimento. Le foto dei tatuaggi e altri dettagli del corpo di Carol: l’anca maculata, il braccio disegnato. La donna non è stata una persona intera per i social e forse nemmeno per chi le stava vicino, non è un cadavere intero per gli inquirenti.

Pure la narrazione della stampa è dissociata. Prima raccontano l’omicidio di un’attrice porno, senza stare a scomodare la parola femminicidio. Poi descrivono l’evento per parti, non trovano un nesso unico, un movente convincente che non sia quello del “gioco finito male” (prima versione di Fontana).

La cosa che più colpisce è che mancano fin dall’inizio le domande più grandi, gli interrogativi inquietanti. Come fa una donna, intera, una mamma, intera, a sparire 70 giorni senza che nessuno se ne sia accorto? Come possono parenti e amici accontentarsi di semplici messaggi Whatsapp per oltre due mesi? Lo stupore è sbagliato anche stavolta, perché succede. Succede spesso. Le persone ai margini vengono dimenticate. Le persone vengono dimenticate.

A ciò si aggiungono certe scelte di vita ad alto rischio isolamento. E in tutta questa storia frammentata di corpi, identità e persone fatte a pezzi, solo due cose appaiono uniche, intere, non rateizzabili: la profonda solitudine e l’abbandono di ogni umanità.

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