Cultura

Paolo Nori, Dostoevskij e la guerra in Ucraina: la delicatezza di un intellettuale che ci ricorda ogni giorno che non dobbiamo avere paura dei russi

Dopo la censura dell'Università Bicocca, che aveva cancellato il corso su Dostoevskij, lo scrittore originario di Parma è stato buttato nell'agone politico (e non solo). Lui ne è uscito alla grande facendo quello che fa da sempre. E cioè parlando di letteratura. E cultura

di Alberto Marzocchi

A me, devo dire, Paolo Nori fa un effetto che non mi fa nessun altro scrittore. Io non so come sia andare da una psicologa, o da uno psicologo – è uno dei miei buoni propositi dell’anno, confesso – ma a me, anche se non so come sia, Paolo Nori fa quell’effetto lì. Come se seguissi una terapia. Io non so se succeda la stessa cosa a qualcun altro, o a qualcun’altra, in Italia o altrove. Da un lato spererei di no. Dall’altro, spererei proprio di sì. Ecco, a me, Paolo Nori ricorda la mia infanzia. E mi fa rivivere certe cose che avevo proprio dimenticato; che erano sopite chissà dove, in chissà quale anfratto del retrobottega della mia memoria.

L’altra sera sono andato ad ascoltarlo dal vivo, al Teatro Franco Parenti di Milano. Parlava di Dostoevskij. E la sala era piena. Perché nelle ultime settimane Paolo Nori è diventato famosissimo. E a me questa cosa, devo dire, non è che mi piaccia fino in fondo. Cioè, sono contento per lui, molto. Però non è che mi piaccia tantissimo, se si capisce cosa voglio dire. Ebbene, la sala era piena, come se Paolo Nori non avesse mai parlato di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Anche se, che so, saranno almeno 30 anni che parla di letteratura russa. In ogni caso, dicevo, sono andato ad ascoltarlo. E mi ha fatto un effetto bellissimo.

Intanto, bisogna precisare, in platea ho riconosciuto quattro-cinque giornalisti. Che non so se fossero lì per lavoro o per diletto. Però sono sicuro che si aspettassero un ragionamento, un commento, qualcosa, sulla guerra. Probabilmente anche altre persone si aspettavano qualcosa del genere. Due parole sulla censura, su chi reprime l’arte e la letteratura o una sparata in difesa del popolo russo. Qualcosa di teatrale, magari. E invece: niente di tutto questo. E, aggiungo, tutto mille volte meglio di questo.

I riferimenti – lo dico per dovere di cronaca – al conflitto in corso, in, credo, tre quarti d’ora di monologo, sono stati due. Il primo lo ha fatto quando parlava dei primi fiaschi di Dostoevskij. Dostoevskij è diventato subito celebre, piuttosto giovane, con Povera gente e da lì si è montato un po’ la testa. E infatti i tre romanzi successivi – ancorché lui fosse convinto che erano capolavori – sono stati dei fiaschi. Paolo Nori, in quel momento lì, parlava de La Padrona. E diceva, più o meno: “In Italia è introvabile. Ma pure se provate ad andare in una libreria in Russia, anche se è difficile in questi giorni andare in una libreria in Russia, non lo trovate”.

Il secondo riferimento lo ha fatto quando parlava del discorso di Dostoevskij, nel 1880, durante le celebrazioni in onore di Aleksandr Puškin. Un discorso, per dare l’idea, che paragonerei a certi concerti di Michael Jackson che vedevo da piccolo in videocassetta, con persone che piangevano e certe altre che venivano portate via di peso perché si sentivano male. Ecco, il discorso di Dostoevskij fu una cosa così, per fare un paragone. Insomma, Paolo Nori stava parlando di quel giorno di 142 anni fa, quando ha citato il luogo in cui si tenne il discorso, e cioè la piazza intitolata proprio a Puškin. Dove “vedete i cartelli con la scritta ‘no alla guerra’ dei moscoviti che protestano”, ha aggiunto. E questo è stato il secondo e ultimo riferimento alla guerra.

Per il resto, ha raccontato un Dostoevskij amico, come fosse il vicino che incrociamo sul pianerottolo del palazzo. Uno che “assomiglia a Jovanotti da vecchio, dopo che gli è successo qualcosa di brutto”. Uno che esordisce nel mondo dell’editoria traducendo in russo uno dei romanzi della scrittrice francese George Sand; salvo accorgersi, a lavoro finito, che quel libro era già stato tradotto in russo. Uno che a un certo punto si convince che allontanarsi dalla Russia – meglio, dai numerosi creditori che gli danno la caccia – sia l’unica scelta possibile. Uno che arriva a tanto così dalla fucilazione in pubblica piazza. Uno che darebbe in pegno la moglie pur di fare l’ultima puntata alla roulette. E che alla seconda moglie, Anna Grigor’evna Dostoevskaja, dopo aver perso tutto al gioco, per l’ennesima volta, dirà: “Tu hai preso uno che non vale niente”.

Ecco, secondo me, Paolo Nori sta facendo una cosa bellissima, in questo momento storico. Ci sta mostrando – come se ce ne fosse bisogno, ma purtroppo sì, c’è bisogno – che i russi, il popolo russo, è come noi. Che sono nostri fratelli e nostre sorelle, al di là di quello che sta accadendo. O, forse, a maggior ragione per via di quello che sta accadendo. Quindi, piccolo consiglio, per quel che vale: andate ad ascoltarlo, e leggete Sanguina ancora – L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij. Concludo con le parole di Paolo Nori, comparse qualche giorno fa su Il Foglio: “Essere russi non è una colpa. I russi e le russe sono esseri umani, anche se sono russi. Io non ho nessuna simpatia per Putin, come non avevo nessuna simpatia per Eltsin […] e mi sembra che questo, per me, sia il momento più adatto per ribadire […] il mio infinito amore per la cultura russa, per la lingua russa e per lo straordinario popolo russo che abita il paese più grande e più bello del mondo che, secondo me, si chiama Russia”.

Twitter: @albmarzocchi
Mail: a.marzocchi@ilfattoquotidiano.it

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