Durante le guerre del secolo scorso, le dighe erano considerate infrastrutture sensibili e vulnerabili. Poiché si temevano attacchi diretti e sabotaggi, furono adottate da tutti i belligeranti strette misure di protezione. Spesso con successo, perché la seconda guerra mondiale tramanda soltanto cinque casi salienti di disastri bellici, dalle conseguenze molto gravi.

Se une diga viene distrutta, il disastro si estende a scala di bacino idrografico, le conseguenze sulle zone riparie possono essere enormi, l’effetto domino rilevante. La caduta della produzione idroelettrica può mettere in crisi la tenuta industriale e logistica del nemico. E la produzione agricola di una intera annata può venire compromessa.

Nel corso delle guerre che miravano a occupare il territorio nemico, le infrastrutture indispensabili a produrre l’energia elettrica non costituivano, di norma, un obiettivo da distruggere. Meglio era conservarle in piena efficienza per poter alimentare l’avanzata. Per contro, l’esercito del paese invaso poteva decidere di distruggere la diga per evitarne la caduta in mani nemiche. Ogni evento fa storia a sé e i cinque disastri bellici delle dighe durante la seconda guerra mondiale comprendono due collassi della stessa diga, prodotti con modalità e finalità diverse da diversi attori. In Ucraina.

Sulla soglia del secondo conflitto mondiale, la diga Dnjeprostroj era lo sbarramento fluviale più grande del mondo. I sovietici avevano invasato le acque del fiume Dnjeper con una diga a gravità arcuata, sorretta da contrafforti, il cui coronamento era lungo quasi 800 metri. L’opera, iniziata nel 1928 e terminata nel 1931, era stata costruita in prossimità della città di Saporoshje (Zaporizhzhia o Zapporiggia). Poco a valle di questa antica città, che oggi conta più di 700mila abitanti, l’Unione Sovietica decise poi di localizzare la centrale atomica più grande d’Europa, attiva dal 1985 e recentemente toccata dai combattimenti. Grazie alle imponenti opere idrauliche degli anni 30, l’acqua di raffreddamento dei reattori non mancava, né manca tuttora.

Lo sfioratore superficiale, posto lungo la cresta della diga e regolato da 47 paratoie, poteva scaricare fino a 23mila 500 metri cubi al secondo. Più del doppio della massima piena mai osservata nel Po all’ingresso nel delta adriatico. L’invaso del lago artificiale era stimato in più di un miliardo di metri cubi, un volume idrico pari a circa dieci volte quello invasato nel lago del Vajont al momento della tragedia.

Lo scopo primario della diga era la navigazione fluviale, poiché si dovevano superare gli ostacoli posti dalle rapide del fiume Dnieper. La produzione idroelettrica non era certo secondaria, se furono installati più di 1.500 Megawatt, più di un quarto della potenza installata in seguito nella centrale atomica. L’opera, antesignana di molte dighe costruite in Europa e negli Stati Uniti durante il new deal per alimentare la ripresa dalla crisi finanziaria del 1929, divenne subito il biglietto da visita del nascente sistema comunista sovietico.

Nell’agosto del 1941 le truppe sovietiche in ritirata fecero esplodere una parte della diga Dnjeprostroj con la dinamite: volevano ritardare l’avanzata all’esercito tedesco, impedendo l’uso dell’impianto agli invasori. Si narra che la missione fu condotta dalla polizia segreta, la NKVD antesignana del KGB, su espresso ordine di Stalin. Vennero distrutti completamente circa 200 metri di diga (vedi Figura 1 e video) e la portata di picco attraverso la breccia prodotta dall’esplosivo fu stimata in 35mila metri cubi al secondo, quasi il doppio della massima piena naturale di progetto.

Le vittime di valle furono migliaia. Annegarono nel fiume anche molti soldati sovietici che, in ritirata, lo stavano attraversando, ma non si hanno stime precise né ben documentate sulle vittime civili e militari. Un sopravvissuto, Oleksiy Dotsenko, raccontò molti anni dopo in una intervista televisiva che “la gente invocava aiuto, gridando. Le mucche muggivano, i maiali strillavano. La gente si arrampicava sugli alberi”.

Subito dopo il loro arrivo, i tedeschi iniziarono la ricostruzione della diga, che venne ripristinata alla fine del 1942. Nove mesi più tardi, le sorti della guerra s’invertirono. Durante la ritirata, i tedeschi bombardarono la diga con l’aviazione, causando danni paragonabili a quelli che i russi avevano prodotto con la dinamite nel corso della prima azione bellica. Dopo la fine della guerra i sovietici ricostruirono la diga Dnjeprostroj, oggi pienamente operativa.

Non c’è ancora nessun monumento ufficiale né una targa in città per onorare le vittime della diga Dnjeprostroj. Se con la poesia Baby Yar Yevgeny Yevtushenko rimise in moto la memoria universale per l’olocausto di Kiev, nessuno ha tuttora saputo ricordare con la stessa forza la duplice tragedia della diga. Non c’è un monumento a Baby Yar, canta il primo verso di Yevtushenko. E non c’è un monumento neppure a Zapporiggia.

Il sistema delle dighe sul Dnieper – noto come la Cascata del Dnieper – è imponente. Una rottura di monte può provocare enormi danni a catena, una sorta di effetto domino che potrebbe emulare la catastrofe cinese di Banquiao del 1975. Una eventuale rottura della diga di Kiev – quella che nel 1970 salvò la capitale ucraina da un disastro paragonabile a quello dell’alluvione del 1931 – potrebbe distruggere a catena le dighe di valle – la Kanevskaya e la Kremenchukskaya – fino a interessare l’intera cascata, arrivando alla centrale nucleare di Zaporizhzhya (vedi Figura 2). Uno scenario per fortuna remoto, ma pericoloso.

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