In poche settimane i numeri dell’esodo ucraino sono diventati enormi. Tre milioni le persone già sfollate, di cui il 60 per cento in Polonia. Quanto a noi, l’Italia conta già 47mila arrivi. Dati al centro dell’audizione del capo della Protezione Civile, Fabrizio Curcio, in commissione bicamerale Schengen alla Camera. Curcio non usa giri di parole: “Gli strumenti dell’attuale sistema di accoglienza sono insufficienti, e se anche una parte di chi ha trovato ospitalità da amici e parenti chiedesse accoglienza allo Stato, il sistema sarebbe messo in crisi“. Ad oggi quasi tutte le persone arrivate in Italia sono ospiti di connazionali, parte di una comunità ucraina che nel nostro paese sfiora le 250mila persone. Mentre sono appena 2500 i profughi accolti dal sistema pubblico. “Ma se dobbiamo ragionare in termini di percentuale di quei tre milioni che hanno già lasciato l’Ucraina – continua Curcio – la rete di protezione civile non sarà sufficiente a sopportare quel peso”.

Se, ufficialmente, l’Unione europea non ha ancora affrontato la ricollocazione dei flussi in fuga dal conflitto, non sono campate per aria le ipotesi che valutano in centinaia di migliaia i profughi potenzialmente diretti in Italia. E allora, in nome dell’emergenza, l’Italia punta per la prima volta su un modello che fino a ieri è stato la cenerentola del nostro sistema di accoglienza, quella “diffusa”. Si tratta di sistemare le persone in famiglia, come già sta avvenendo, ma con la supervisione di enti, associazioni e cooperative del Terzo settore. Un modo di “mettere a sistema lo spontaneismo”, è la definizione che piace alla politica e che lo stesso Curcio ha ripetuto. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo la questione dei soldi, quelli stanziati e quelli da stanziare. Anche dall’Unione europea, che si spera istituirà un fondo apposito. In attesa di capire chi paga, sul tavolo della Protezione Civile arrivano le proposte del Terzo settore, che chiede “precise linee guida” e calcola in 32-35 euro il costo giornaliero dell’accoglienza di un profugo. Tutto compreso: dal contributo per le spese di chi lo ospita in casa sua alla fornitura di vestiario, pocket money e tessera telefonica, dall’assistenza sanitaria all’inserimento scolastico, fino a quello lavorativo.

E’ una lotta contro il tempo e uno scontro decisamente impari, soprattutto se dovessero avverarsi previsioni come quella dell’Unhcr, l’Agenzia Onu per i rifugiati, che stima in 700mila i potenziali arrivi in Italia. Numeri difficili da immaginare per un paese che non ha mai ospitato più di 180mila persone, era il 2017. E se la comunità ucraina non si fosse accollata il 95 per cento delle persone arrivate finora, saremmo già al collasso. Parola del numero uno della Protezione Civile, che ha riferito la situazione ai parlamentari del Comitato Schengen prima di illustrare il Piano nazionale di accoglienza e assistenza. In parte già definito nelle scorse settimane e tuttavia da finalizzare, come ha spiegato Curcio. E, se in passato l’Italia ha privilegiato le grandi strutture, accontentandosi di avere un sistema di accoglienza ordinario sottodimensionato, tanto che in alcune regioni non ha mai superato il 10 percento del fabbisogno, quella di oggi in nome dell’emergenza ucraina è una piccola rivoluzione. O meglio, un cambio di paradigma. Perché l’accoglienza diffusa che entra a far parte del Piano nazionale di accoglienza e assistenza non è mai andata a genio ai governi italiani. E se di progetti ne esistono, come quello delle “Famiglie Accoglienti” di Bologna che ospitano parte dei 1400 posti SAI (Sistema di Accoglienza e Integrazione) affidati al Comune, questa soluzione non è mai diventata davvero un modello. Fino ad oggi e ai numeri di questo esodo tutto europeo, non solo per dimensione. Il flusso in ingresso è infatti composto per il 50 percento da donne e per il 40 percento da bambini, “e provenienti da un paese dove il legame familiare è molto forte”, ha spiegato Curcio. Premessa per dire che quella delle grandi strutture temporanee questa volta sarà l’extrema ratio, nel caso il conflitto in Ucraina dovesse continuare a lungo e una parte di coloro che si sono fermati nei paesi confinanti decidesse di spostarsi in altri paesi Ue.

Viva la “filiera della solidarietà”, dunque. Intanto perché il sistema ordinario (SAI) e straordinario (CAS) dell’accoglienza italiana ha pochi posti. E perché quelli nuovi, annunciati dal governo lo scorso 28 febbraio, sono appena ottomila. Ma la solidarietà non dura per sempre. Nemmeno quella dei connazionali ucraini, che già contattano sindaci e prefetture per segnalare le difficoltà economiche dell’impegno che stanno affrontando. E siccome al loro buon cuore, come a quello di tanti italiani, non possiamo permetterci di rinunciare, meglio “metterlo a sistema”, facendolo diventare il perno dei singoli Piani regionali di accoglienza.

Oltre agli alloggi individuati da prefetti e sindaci e all’ospitalità temporanea in strutture della Protezione Civile, questi piani terranno conto delle disponibilità gestite dal Terzo settore e in particolare dalle sue reti territoriali. Reti nelle quali dovrà confluire anche la solidarietà di italiani e ucraini. “Dobbiamo utilizzare tutto lo spontaneismo messo in campo, ma è un meccanismo delicato e quindi garante dell’incontro tra ospitato e ospitante saranno le reti del Terzo settore, che in questo settore rappresentano un vanto del nostro paese“, ha detto Curcio. Che ha lasciato la questione dei soldi per il finale. Anche perché, ha spiegato, per quello “servirà la valutazione della politica per definire la fattibilità o meno“. Di che parla? Di un “contributo alle famiglie che ospitano sotto forma di contributo al profugo, ma su questo stiamo cercando di capire come muoverci perché dobbiamo fare una valutazione attenta delle esigenze, anche per evitare meccanismi che se utilizzati in maniera spregiudicata possono diventare un problema”. Insomma, meglio evitare che qualcuno possa gridare al “business dell’accoglienza”, almeno stavolta.

Curcio assicura che per un protocollo è questione di giorni: “Siamo in via di finalizzazione con le reti del Terzo settore”. Per capire di cosa si ragiona, intanto, si può leggere una nota informativa che ARCI e Caritas hanno messo a disposizione della Protezione Civile, con alcune proposte che anticipano un testo unitario di tutte le associazioni del Tavolo nazionale Asilo e Immigrazione. “Le reti associative garantirebbero per le famiglie che accolgono e presenterebbero richiesta di rimborso alle protezioni civili locali e regionali”, si legge nella nota, che invita a privilegiare i soggetti già attivi al fianco dei comuni nei progetti SAI, così da evitare l’improbabile protagonismo di chi, come già in passato, “ha riconvertito magazzini in centri di accoglienza e imprese di pulizie in onlus improvvisate”, ricorda il responsabile Immigrazione di ARCI, Filippo Miraglia. Trasparenza e garanzie sono dunque le parole d’ordine, al centro delle richieste che in questi giorni il Forum Terzo Settore ha manifestato al governo italiano. “Vanno attivate convenzioni dirette con le nostre reti, indicazioni e protocolli ben definiti e condivisi da tutti a garanzia di interventi trasparenti e di qualità”, dichiara Vanessa Pallucchi, portavoce del forum. Che sull’organizzazione e la gestione dell’accoglienza diffusa riferisce: “Vediamo, in questi giorni, i diversi soggetti istituzionali a livello territoriale giustamente attivarsi in assenza, però, di linee guida per gestire l’accoglienza secondo le esigenze specifiche di questa crisi”. Indicazioni precise, dunque, per evitare sprechi e storture di gestioni in ordine sparso. “Le prefetture stanno facendo gare già molto disomogenee tra loro, chiedendo a molti enti del Terzo settore di firmare convenzioni che vanno dai 23 euro ai 30 euro al giorno pro capite per coprire vitto, alloggio ed erogare tutti i servizi necessari a queste persone. Allo stesso tempo chiamano gli albergatori per contratti da 55/60 euro al giorno a persona per i soli vitto e alloggio”, racconta Miraglia.

Nella proposta di ARCI e Caritas, invece, si punta a uno standard che calcola tra i 32 e i 35 euro al giorno per ogni persona effettivamente ospitata i costi da sostenere. Soldi che associazioni e cooperative userebbero così: un contributo per le utenze e per la spesa alimentare, questa calcolata in 5 euro al giorno pro capite, soldi per fornire vestiario, un pocket money di 2,50 euro al giorno a persona “da erogare in modo tacciabile e trasparente”, e una scheda telefonica con ricarica una tantum. Il resto va a coprire tutti i servizi che l’ente deve garantire ai profughi ospitati nelle famiglie che monitora. Si parte dal servizio di accompagnamento alle accoglienze, che verifica l’adeguatezza dei titolari e fa sottoscrivere loro un “patto di corresponsabilità”, al quale seguono incontri periodici e supporto, anche in caso di problemi e dell’eventuale necessità di trovare una soluzione diversa. C’è poi l’assistenza legale, l’orientamento alla tutela giurisdizionale, la mediazione culturale e linguistica, il sostegno sociopsicologico e il servizio di alfabetizzazione, solo per citarne alcuni. Non ultimi, l’inserimento scolastico per i bambini dai 3 ai 18 anni e quello al lavoro e alla formazione, con l’accompagnamento della persona nella ricerca di un lavoro. Perché i profughi ucraini saranno tutti titolari della protezione temporanea attivata dal Consiglio Ue il 4 marzo, che comporta l’accesso ai servizi sanitari, all’istruzione e al mercato del lavoro.

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