Migliaia di storie di guerra attraversano ogni giorno l’altopiano carsico tra Italia e Slovenia, alle spalle di Trieste. Arrivano dopo giorni di viaggio, in pullman carichi di bambini. A raccontarle sono le voci delle donne, stanche, tese, forti per i figli che accompagnano nella fuga. Alcune parlano l’Italiano, hanno lavorato qui, hanno amici da raggiungere. I bambini più piccoli sorridono, scelgono giochi, peluches e matite colorate davanti ai volontari della Protezione civile. A non sapere cosa portano quei pullman, a non badare alla targa, si può passare da lì e non accorgersi di nulla. L’esodo è lento, silenzioso e ordinato, inesorabile. La polizia sale, controlla i passaporti, scende. Poi c’è il tempo di sgranchirsi le gambe, di parlare con i mediatori dell’Unhcr, l’Agenzia Onu per i rifugiati. E si riparte: Roma, Viterbo, Napoli. Ma anche Barcellona, come racconta una donna arrivata in macchina con i figli. “Ho amici che vivono lì”. Poche parole, nessuno ha voglia di sprecarne. Lontano dalle bombe, al valico di Fernetti transita la guerra che non fa rumore. Eppure, spiega un sovrintendente della Polizia, “ormai passano da qui 1200 persone al giorno“.

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