Cultura

Il macchiaiolo, la brigantessa e gli altri 5 milioni di immagini su com’era l’Italia: l’archivio fotografico più antico del mondo compie 170 anni

La storia dell'Archivio Alinari, nato a Firenze prima che il Paese fosse unito: dal 2020 è passato dal privato al pubblico con l'obiettivo di tutela e valorizzazione del patrimonio sterminato tra dagherrotipi, diapositive, apparecchiature, negativi, album. "Solo così abbiamo evitato che andassero persi" dice il presidente della fondazione Van Straten

di Marco Ferri

La foto in posa – senza sorriso – di Giovanni Fattori, tra i più celebri dei Macchiaioli e uno dei maestri di Amedeo Modigliani. L’affondo orgoglioso di Irene Camber, mito della scherma che vinse un oro olimpico a Helsinki nel 1952 – che Mattarella ha citato tra i suoi primi ricordi da appassionato sportivo – costringendo la dirigenza italiana dello sport ad occuparsi anche del fioretto femminile. O ancora lo sguardo fiero Michelina De Cesare, figura leggendaria del brigantaggio post-unitario, incubo dell’esercito savoiardo che la trucidò a 26 anni. E’ il racconto di un’Italia che non c’è più che arriva fino ai giorni nostri grazie agli scatti storici conservati all’archivio Alinari, nato prima dell’Italia, dall’estate 2020 non è più privato, ma pubblico e gestito dalla “Fondazione Alinari per la Fotografia Toscana”, nuovo organismo fondato dalla Regione Toscana per la conservazione, gestione e valorizzazione del patrimonio.

L’archivio Alineari è nato nel 1852 e l’Italia non era ancora unita: a Firenze un giovane trentenne, Leopoldo Alinari, a due passi dalla Basilica di Santa Maria Novella apre il suo primo laboratorio di fotografia. Alinari porta il nome di battesimo dell’ultimo granduca dei Lorena che sette anni più tardi – per effetto del plebiscito – avrebbe ceduto il testimone al futuro re d’Italia. Leopoldo, insieme ai fratelli Romualdo e Giuseppe, fondò l’azienda di famiglia – la Fratelli Alinari – che ben presto sarebbe diventato un vero e proprio “marchio” di eccellenza in fatto di immagini, soprattutto d’arte, ma non solo. Ad oggi l’archivio ha raggiunto questi numeri: 3mila dagherrotipi, oltre 400mila diapositive a colori, 25mila tra libri e riviste, diverse centinaia di apparecchiature fotografiche, un milione e 650mila negativi su pellicola e circa mezzo milione su lastra, più di 6mila album d’epoca, per un totale complessivo di oltre cinque milioni di pezzi che ben rappresentano il mondo in cui viviamo negli ultimi due secoli.

Dalla nascita dell’archivio sono trascorsi 170 anni e quel brand ha appena aperto un nuovo capitolo della propria storia plurisecolare, con la gestione pubblica. “Anche se normalmente accade il contrario – dice Giorgio Van Straten, presidente della Fondazione Alinari – stavolta un patrimonio privato è diventato pubblico con l’intento di salvaguardarlo, perché i circa cinque milioni di pezzi che lo costituiscono rischiavano di andare dispersi. Si tratta di un patrimonio con un immenso valore storico-documentario, perché è l’archivio fotografico più antico del mondo; basta pensare alle cosiddette ‘fotografie uniche’, i dagherrotipi antecedenti all’invenzione del negativo, una collezione tra le più importanti al mondo. Per tutti questi motivi, e facendo un investimento coraggioso perché non banale, la Regione Toscana ha deciso di salvare l’unitarietà di questo patrimonio mettendolo a disposizione degli studiosi e della comunità”.

Il successo degli Alinari era segnato sin dagli inizi, che infatti furono folgoranti. Leopoldo e i suoi fratelli cominciarono a riprodurre i monumenti e le opere d’arte della città su lastre che i fratelli Bisson, fotografi a Parigi, vendevano alla borghesia francese. Ciò permise ai fratelli Alinari, dopo soli tre anni di partecipare all’Esposizione universale di Parigi del 1855, poi a quella di Bruxelles dell’anno successivo. I fotografi fiorentini erano richiestissimi e i committenti erano d’alto lignaggio, comprese le principali case regnanti d’Europa. Sei anni più tardi gli Alinari lanciarono la ritrattistica dei Principi e nel 1863 lasciarono la minuscola via Cornina per trasferirsi in un intero palazzo nel quartiere fiorentino detto di “Barbano”, a due passi dagli spazi che a metà degli anni Trenta del Novecento avrebbero accolto la nuova stazione ferroviaria di Giovanni Michelucci. Da quel momento non si contano le campagne fotografiche di pregio: dalla Cappella Sistina di Roma ai disegni dell’Accademia di Venezia e degli Uffizi, tanto per fare qualche esempio; quindi, dal 1907 gli Alinari diedero il via a un’intensa attività editoriale dedicata alla storiografia artistica e di costume, curata da autorevoli critici d’arte. Da quel momento, per circa un secolo, è un susseguirsi di campagne fotografiche, cambi di proprietà, acquisizioni di altri archivi fotografici che non fanno che arricchire a dismisura il patrimonio dell’Archivio Alinari, fornitissimo per quantità e qualità delle immagini.

Nel tempo gli Alinari hanno anche provato a dotarsi di un proprio museo, ma senza fortuna: una prima volta nel 1985 a Palazzo Rucellai e 20 anni dopo nell’ex-convento delle Leopoldine, proprio di fronte alla Basilica di Santa Maria Novella. “La Fondazione – spiega Van Straten – si sta facendo carico di tutte le azioni affinché questo patrimonio sia fruito e valorizzato, a cominciare dall’individuazione del luogo dove conservare l’Archivio che, non appena saranno finiti i lavori di adeguamento impiantistico, si trasferirà alla Villa Fabbricotti, non lontano dalla zona di Careggi; c’è poi il luogo dove nascerà il nuovo museo della fotografia storica, ovvero in alcuni spazi dell’ex-scuola dei marescialli, in piazza Stazione a Firenze, dove tra l’altro troverà spazio anche il Museo della lingua italiana. Spero che ciò accada entro la fine del mio mandato, che scade nel 2025″. Intanto la fondazione non ha smesso di organizzare mostre. Nel 2022 è in programma una grande esposizione in estate al Forte Belvedere. Nel frattempo prosegue la messa online in forma digitale di oltre 250mila immagini e del fondo dei 3mila dagherrotipi. “Il passaggio da privato a pubblico – conclude Van Straten – ha un significato sia di tutela, sia di presenza culturale. C’è poi un altro aspetto: occorre preservare la dimensione fisica dell’oggetto fotografico, non a caso c’è una riscoperta della fotografia su carta invece che solo come file nel proprio telefonino. Perché in termini di conservazione l’immaterialità non è detto che sia lo strumento più efficace”.

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