Cinema

Petite Maman, il nuovo film di Celine Sciamma è una fiaba dai lampi magici e dalle radici ancestrali

Il film è una sorta di semplice, raffinato e commovente incantesimo

di Davide Turrini

C’è un film che consigliamo vivamente in questo weekend. S’intitola Petite Maman ed è diretto dalla francese Celine Sciamma. Ha una durata curiosa, inusuale, di un’ora e dodici minuti. Ed è un film fatto di foglie autunnali e tazze di caffelatte, di bambine in salopette e cravatte e vecchi mobili in legno, di palpabili invisibili lutti e fantasmi che ti sembra di vedere. Ma soprattutto Petite Maman è una sorta di semplice, raffinato, commovente incantesimo.

La nonna dell’ottenne Nelly (Josephine Sanz) è morta. Assieme a mamma e papà la bimba torna nella casa della nonna per svuotarla di mobili e suppellettili. Nelly e il papà rimarranno qualche giorno nella casa e intanto la bambina, tra il recupero di vecchi oggetti e silenziosi pasti, esplorerà i dintorni nel bosco. Lì incontrerà un’altra bambina (Gabrielle Sanz): qualche piccolo dettaglio di vestiario e acconciatura differente ma identica e lei. Bimbetta che si chiama come la mamma di Nelly, Marion. Nasce subito un’amicizia e una confidenza profonda. Sciamma fa vivere da sempre il suo cinema dal respiro intatto di adolescenti e bambini. Con Petite Maman scende un ulteriore gradino anagrafico ma il suo sguardo franco e libero verso le protagoniste inquadrate non perde per nulla di efficacia, anzi. È proprio nella rarefazione dei gesti, nella perentorietà delle parole e degli atti compiuti dalle due bimbe protagoniste, che Sciamma riesce a far scivolare il piano di un calmo realismo, attraverso un rispecchiamento e una compenetrazione di Nelly e Marion, in quello di una fiaba dai lampi magici e dalle radici ancestrali.

La casa, il bosco, le stanze, gli oggetti, le bimbe stesse vivono di una doppiezza fatata e di svelatrice che ammalia e sorprende. Perché in fondo questo film è una storia di fantasmi fatta di spazi che si svuotano, di anime che ci lasciano, e di sentimenti che si solidificano. Un dolore mai esibito, ordinato su inquadrature fisse dalla rigorosa distanza rispetto ai soggetti inquadrati, costruito nel fitto e secco dialogo tra Nelly e Marion, artefici di buffonerie fanciullesche (le ricette preparate in cucina, la zuppa schifiltosa sputazzata nel piatto) come di un gioco di recitazione che pone in essere un finale di rara compostezza psicologica e di robusta scorza femminile. Distribuisce Teodora.

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