“Professore, salve. Sono felice che mi abbia risposto e che abbia voluto organizzare un incontro prima dell’inizio delle lezioni. Ci sarò, anche se la mia estate è stata davvero brutta. Forse avrà saputo… Ci vediamo venerdì. Un saluto”. A informarmi di quel che era capitato a Giulia, è stata Cecilia appena qualche giorno fa. Così ho pensato di mandare una email ai ragazzi chiedendogli di farmi un regalo: organizzarsi per vederci, per raccontarci questi mesi di lontananza. Di vacanze, di risate, leggere. Ma non per tutti.

Non per Giulia che ad agosto ha perso la mamma. Ed è sprofondata in un baratro dal quale rischia di non risalire. Perché i suoi tredici anni non sono sufficienti a farle capire che quel che le è successo è tremendo, ma va accettato con coraggio. Ma anche con forza.

Dopo esserci salutati, mi sono avvicinato. Mentre stava parlando con Davide ed Eleonora, che dopo poco si sono allontanati con una scusa per lasciarmi da solo con lei. “Professore, la ringrazio” mi dice, cogliendomi un po’ di sorpresa. “La ringrazio perché lo so che ha organizzato questo incontro per me” aggiunge. “Giulia, hai ragione, è vero, ma non l’ho fatto per dirti che immagino cosa provi, come stai. Non sarebbe rispettoso nei tuoi confronti, del tuo sentire, dei tuoi sentimenti. Il dolore ha mille espressioni perché è personale. Intimo”, le dico sollecitandola, con garbo.

“Fai quel che vuoi. Piangi di nascosto, oppure fallo per la strada, mentre mangi un gelato. E il pensiero vola a tua madre, improvvisamente. Esci, oppure stai in casa. Stordisciti con la musica, oppure rimani nel silenzio. Decidi tu cosa fare e come farlo” cerco di farle capire. “Ma fai i conti con il tuo dolore. Non metterlo semplicemente da una parte. Combattici ogni minuto, qualche volta vincendo altre perdendo. Ma non lasciare che diventi parte di te” aggiungo. “Professore, ora non ci riesco” mi dice. “Avrei voluto abbracciarla e dirle che avevo paura, ma non l’ho fatto. Non potevo” mi racconta Giulia, con uno sguardo nel quale c’è tutto. Anche le parole che non pronuncia.

Non amo parlare di me. I ragazzi lo sanno. Le “mie cose” non sono utili alla loro crescita. Ma in questa occasione decido di derogare. “Giulia, vorrei che non facessi i miei stessi sbagli” le dico dopo averle suggerito di provare ad andare allo sportello di ascolto della scuola, di farsi aiutare da uno specialista che le potrà offrire un supporto psicologico adeguato. “Quando avevo qualche anno più di te, ho perso mio padre. Nonostante fossi grande, ho sofferto fino a impregnarmi di dolore. Più passava il tempo e più diventava grande la mancanza, non riuscivo a riemergere. I ricordi facevano male. Tutti, indistintamente. E così li allontanavo. Anzi, li scacciavo”.

Il mio racconto, la sorprende. “Ero convinto fosse una ingiustizia. Forse lo è stata, ma avrei dovuta accettarla. Magari essere arrabbiato con la vita, addirittura con me, per non esserci stato almeno qualcuna delle volte nelle quale avrei potuto. Ma avrei dovuto accettare la morte e non tentare di rimuoverla. Non è possibile farlo. Nessuno può riuscirci”. Mi rendo conto di parlarle come potrei fare con un adulto, ne sono consapevole. Ma vorrei che Giulia capisse, se non ora con il tempo. Vorrei che non crescesse con il dolore dentro tra piccoli rimorsi e grandi rimpianti. “La morte di chi è stato importante per noi, è una privazione, quasi un’amputazione, è innegabile, ma non deve impedirci di vivere. Non deve trasformarci in ombre” aggiungo, ripetendole: “Non accantonare il dolore. Facci i conti. Vedrai diventerai più ‘bella’. Non chiudere dentro di te la sofferenza, falla uscire”.

Arriva Eleonora, con la quale scambio un sorriso. È un attimo. Iniziamo a parlare della scuola, scherziamo su quel che faremo nei primi giorni. Giulia sorride. Ha incontrato la morte ma dicendosi la verità imparerà a gestire il dolore fino a trasformarlo in ricordi che potranno farle ancora male, ma non la annienteranno.

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