di Gianluca Pinto

È interessante il livello del dibattito sul green pass in stile “Comics’ Golden age”, in cui il mondo è diviso in buoni e i cattivi tout court. Tuttavia, se gradisco questo approccio nei fumetti statunitensi degli anni ’30-’50, nel 2021 in tema di misure per una pandemia non lo trovo particolarmente stimolante.

Prendiamo ad esempio la questione della “discriminazione” in merito al green pass. Alcuni sostengono che il green pass creerebbe una disparità di possibilità tra le persone che lo possiedono e coloro che non lo possiedono. Sinceramente, questa argomentazione non riesco proprio a riceverla e a capirla. Purtroppo si tratta di una pandemia e, con tutti gli enormi difetti attuali della gestione della limitazione del contagio, è necessario tutelare la collettività, per cui tale misura è essenziale. Allo stesso tempo è fondamentale che ciascuno di noi abbia un minimo di senso di responsabilità.

Tuttavia la politica istituzionale, con i suoi provvedimenti e la sua comunicazione, non contribuisce in alcun modo (anzi) a far crescere il senso di responsabilità indispensabile in un momento come questo.

Parlando di “discriminazione”, infatti, va fatto notare come essa purtroppo ci sia, ma si trovi nel modo in cui è stato concepito il Green Pass in Italia. La disparità è presente, ad esempio, tra l’obbligo del passaporto verde nei treni a lunga percorrenza (e nei trasporti che siano di tipo interregionale) e il non obbligo sui mezzi pubblici locali o i treni regionali dei pendolari. Questo, oltre a essere assolutamente incomprensibile e addirittura contraddittorio a livello di lotta al contagio, discrimina i livelli di protezione tra cittadini operando una distinzione tra chi viaggia su mezzi a lunga percorrenza e chi prende i mezzi pubblici locali (alla fin fine si arriva sempre lì: chi può permettersi servizi più costosi e controllati viene tutelato, mentre chi non se li può permettere e/o deve andare con i mezzi a lavorare tutti i giorni è lasciato a se stesso). È chiaro che ciò sia così per ovvi motivi di capacità di controllo ma questo, quando taciuto, sul piano della opacità della comunicazione è un’aggravante.

Quando ci sono azioni istituzionali le cui contraddizioni non vengono chiaramente spiegate ai cittadini, non ci si può aspettare un atto di fede da parte delle persone senza riserve e non si può pretendere che nessuno abbia dubbi. Peggio ancora se si equipara chi si pone alcuni interrogativi (talvolta ovvi, che nulla hanno a che fare con il principio che vaccinarsi è fondamentale o che il Green Pass sia una misura utile e inevitabile) a chi è pregiudizialmente, senza ragionamento, contrario ai vaccini o al passaporto verde.

Il problema, per il potere politico, è sempre stato il dire le cose come stanno. Il potere politico, dalle piccole alle grandi cose, ha sempre una comunicazione opaca, dove si insidia il “secondo fine”. Nel caso del green pass il secondo fine non detto è spingere tutti a vaccinarsi senza imporre l’obbligo della vaccinazione (obbligo a cui, in questo specifico caso, io personalmente sono favorevole).

Questa opacità tra fine dichiarato e scopo enunciato non aiuta la presa di coscienza della responsabilità collettiva in ciascun individuo, anzi, spinge le persone a non fidarsi. Questo è il punto vero di cui non si parla abbastanza spesso.

Per questi motivi, se non concepisco quello che – secondo me – è un irragionevole rifiuto a priori del vaccino e delle misure di prevenzione, non comprendo nemmeno coloro che equiparano chi ha dubbi ai “no vax”, i “no mask” o sostengono che i vari “no qualcosa” siano simili ai terroristi. Non capisco nemmeno chi afferma che i no vax, qualora si ammalino di Covid, debbano curarsi a loro spese (personalmente lo considero un’aberrazione).

Trovo l’atteggiamento pregiudiziale assolutistico, senza considerare le sfumature, riservato a chi semplicemente si pone domande e ha dubbi altrettanto folle della pregiudiziale irrazionale “no vax”.

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