Cultura

Bella Ciao, ecco perché il canto partigiano “non ha bisogno” di diventare un inno. Lo studioso Portelli: “Un regalo alle destre, così perde il senso di lotta”

La proposta di legge depositata alla Camera polarizza il dibattito: ma per l'accademico esperto di storia orale "istituzionalizzare un canto popolare ne cambia la natura. Un inno ufficiale - argomenta - non appartiene più a chi lo canta. E darebbe l'immagine di un antifascismo autoritario, imposto dall’alto", lasciando alla destra praterie per discorsi populisti sul concetto di libertà

di Olimpia Capitano

La proposta di legge depositata alla Camera da parlamentari di Partito democratico, Movimento 5 stelle, Italia viva e Liberi e uguali per trasformare Bella Ciao – canto popolare simbolo della Resistenza partigiana – in uno degli inni nazionali da eseguire in occasione del 25 aprile ha polarizzato il dibattito. C’è chi insiste sulla natura “istituzionale” della canzone, definita nell’atto parlamentare “espressione popolare dei più alti valori alla base della nascita della Repubblica”, e chi si oppone a questa visione ecumenica, sottolineandone la connotazione politica. Da destra, soprattutto, la tendenza è quella di criticare Bella Ciao – considerata più vicina alla cultura di sinistra – persino con affermazioni al limite del falso storico, come quella di Ignazio La Russa (Fratelli d’Italia), che l’ha definita “la canzone dei partigiani comunisti“.

Al di là delle provocazioni ideologiche, però, occorre scendere un po’ più a fondo. L’accademico Alessandro Portelli, ad esempio – uno dei padri fondatori della storia orale, esperto di canti popolari – ha un’idea ben precisa in merito: la “promozione” di Bella Ciao a inno nazionale è “un gesto non necessario“. Pur riconoscendo “la bontà dell’iniziativa, che intende ribadire il carattere antifascista dello Stato”, lo studioso fa notare che “istituzionalizzare un canto popolare ne cambia la natura: un inno ufficiale – argomenta – non appartiene più a chi lo canta“. E in effetti, ricorda, questo canto rappresenta “un personale e collettivo atto di coscienza: nessuno ha obbligato i partigiani a intonarlo”. Mentre renderlo ufficiale, in qualche modo, affievolirebbe la forza dello spontaneismo sociale e della moltitudine di significati di lotta associati a quel motivo. Per di più – fa notare Portelli – una scelta del genere rischia di diventare un grande regalo alle forze di destra, dando l’immagine “di un antifascismo autoritario, imposto dall’alto, lasciando a destra lo spazio per costruire discorsi di consenso intorno al concetto di libertà“. Insomma – sintetizza – “Bella ciao non ha bisogno di questo“.

L’iniziativa rischia inoltre di alterare il senso – presente e storico – del canto, distorcendo la memoria del contesto di cui è espressione. Nel secondo dopoguerra, infatti, c’era tutto da ricostruire: in quella cornice conviveva una densità di partiti politici che avevano collaborato alla Resistenza, portando con sé idee completamente differenti. La formula antifascista aveva permesso di aggregare molte di queste forze politiche, ma non tutte. La narrazione dell’antifascismo si rivelò utile per raggruppare sotto una bandiera apparentemente unica i partiti legati alle democrazie occidentali, ma al contempo – con un passaggio molto ambiguo – fu formalmente negata la legittimazione politica ai neofascisti come ai comunisti.

Anzitutto, il fenomeno che lo storico Claudio Pavone ha definito di “continuità dello Stato” implicò una certa linearità del percorso istituzionale, mantenendo moltissimo dell’apparato statale e del sistema legislativo di eredità fascista. Anche sul fronte più politico, se da un lato l’estrema destra non aveva partecipato alla stesura della Costituzione, il Movimento sociale italiano – erede del Partito nazionale fascista – contribuì più volte a garantire la stabilità consevatrice dei governi democristiani, fornendo loro esplicito sostegno in Parlamento. Allo stesso tempo, con la guerra fredda e il crescente anticomunismo, iniziò a stridere sempre di più l’importanza del Partito comunista italiano nel quadro politico del Paese. E il timore per la sua crescente potenza elettorale polarizzò ulteriormente il discorso pubblico in senso anticomunista, a scapito del messaggio antifascista. Come ricorda Portelli, “abbiamo accettato l’idea che i ragazzi di Salò avessero delle buone ragioni” ponendo, implicitamente, sullo stesso piano fascismo e antifascismo.

Dinamiche che hanno comportato, da un lato, una difficile discesa a patti col passato fascista e un problema di costruzione della memoria; dall’altro una fortissima conflittualità sul piano ideologico, nel quadro di un sistema istituzionale non troppo dissimile da quello fascista. Secondo lo storico Massimo Salvadori, tali livelli di scontro hanno portato il dibattito politico verso una costante “demonizzazione dell’avversario“, che a sua volta conduce a un “sistema politico bloccato“, che un tempo impediva del tutto l’alternanza di governo (che tuttora rimane complessa). Questa logica è stata alla base del lungo monopolio della Democrazia Cristiana e ha anche creato quelle condizioni di fragilità istituzionale che hanno portato a fenomeni di crisi politica e di stabilizzazione “non elettorale” dei governi. Ad esempio i vari esperimenti di “consociativismo”, di “larga intesa“, di “governi istituzionali” e “governi tecnici“, che hanno contribuito ad allontanare gli elettori dalle istituzioni: dal compromesso storico tra Dc e Pci ai governi Ciampi, Dini, Monti e infine Draghi, passando per il contratto di governo tra Lega e M5S.

Considerate queste premesse, a prescindere dalle più o meno nobili intenzioni, semplificare Resistenza, antifascismo e ricostruzione, riducendo Bella Ciao a oggetto di una proposta di legge, non aiuta ad affrontare complesse eredità storiche rispetto al rapporto tra fascismo e Repubblica. Tutto sommato, davvero “Bella Ciao non ha bisogno di questo”. E forse nemmeno la nostra politica.

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