Il cessate il fuoco stabilito il 28 maggio scorso regge, ma la situazione nel Territorio Palestinese Occupato, in particolare a Gaza, resta preoccupante al punto che le Nazioni Unite, proprio qualche giorno fa, hanno lanciato un piano di risposta di 95 milioni di dollari per soccorrere migliaia di persone rimaste senza niente.
I danni provocati dall’ultimo conflitto si sommano, nel caso della Striscia, – occorre ricordarlo – a tutte le limitazioni subite in termini di libertà di circolazione di persone e beni nei 54 anni di occupazione, 14 di blocco (di cui in questi giorni ricorre l’anniversario), oltre che alle distruzioni dei 4 conflitti precedenti dal 2006. Solo a Gaza si contano più di 100mila sfollati interni e 800mila persone senza regolare accesso all’acqua potabile. Il danneggiamento delle infrastrutture delle acque reflue ha inoltre provocato lo scarico in mare di grandi volumi non trattati, creando rischi per la salute e inquinamento. 54 strutture scolastiche distrutte, 6 ospedali e 11 centri sanitari non più in grado di erogare servizi in una fase in cui il sistema era già sovraccarico a causa del Covid-19. Il carburante è ancora limitato, la rete elettrica, pure compromessa, consente un accesso giornaliero di 4-6 ore in tutta Gaza, limitando ulteriormente la fornitura di tutti i servizi di base.
In attesa di sapere se il nuovo governo di Israele riuscirà effettivamente a nascere, la comunità internazionale ha intanto battuto un colpo: la settimana scorsa a Ginevra si è riunito il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite (Unhrc) per discutere e votare una risoluzione volta a “istituire urgentemente una commissione d’inchiesta internazionale e indipendente, nominata dal Presidente del Consiglio dei diritti umani, per indagare nel Territorio palestinese occupato, compresa Gerusalemme Est, e in Israele su tutte le presunte violazioni del diritto umanitario internazionale e tutte le presunte violazioni e abusi del diritto internazionale sui diritti umani che hanno avuto luogo fino al 13 aprile 2021 e successivamente, e tutte le cause profonde alla base di tensioni ricorrenti, instabilità e prolungamento del conflitto, comprese la discriminazione e la repressione sistematiche basate sull’identità nazionale, etnica, razziale o religiosa”.
In quella assise, Michelle Bachelet, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha affermato che “i bombardamenti (israeliani) sollevano serie preoccupazioni sul rispetto da parte di Israele dei principi di distinzione e proporzionalità previsti dal diritto umanitario internazionale. Se ritenuti indiscriminati e sproporzionati nel loro impatto sui civili e sugli obiettivi civili, tali attacchi possono costituire crimini di guerra”.
Dopo una giornata molto intensa il Consiglio ha votato ed approvato la risoluzione: avremo dunque una Commissione di inchiesta. I paesi che hanno votato a favore della risoluzione sono stati 24, 14 si sono astenuti, 9 si sono opposti. Nessun paese europeo ha votato a favore: Italia, Francia, Olanda, Polonia, Danimarca si sono astenute mentre Gran Bretagna, Germania Austria, Bulgaria, Repubblica Ceca hanno votato contro.
Difficile capire fino in fondo i motivi che hanno spinto questi paesi a scegliere posizioni che paiono più il frutto di un coordinamento tra vertici diplomatici che tra leader politici. Difficile capire come neanche di fronte a 67 bambini morti e a centinaia di strutture civili colpite non si ritenga quanto meno necessario investigare su quanto successo. O l’Italia e gli Stati membri non credono nel Consiglio dei Diritti Umani come luogo dove cercare di ristabilire il rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, oppure preferiscono mandare avanti altri paesi senza prendersi le proprie responsabilità.
In ogni caso non è quello che ci si aspetta da chi ripete il mantra dei “due popoli, due Stati”. Dall’Italia e dall’Europa ci si aspetta leadership e coerenza. È proprio il non essere conseguenti rispetto a quello che succede sul terreno e il non richiamare in modo fermo e coordinato ciascun attore alle proprie responsabilità di fronte alla comunità internazionale che ci ha portato allo status quo, ovvero in una situazione mai così lontana rispetto a quella “voluta”.
Ora più che mai serve, invece, chiamare le cose con il loro nome, ricostruire uno spazio per il dialogo, fondare qualsiasi trattativa su una soluzione futura nel rispetto del diritto internazionale, del diritto internazionale umanitario e delle leggi internazionali sui diritti umani. Dopo il cessate il fuoco di pochi giorni fa, Oxfam è tornata al lavoro con i partner per distribuire acqua pulita, kit-igienico sanitari e aiuti in denaro, per consentire alla popolazione di acquistare cibo e altri beni essenziali. Si può sostenere l’intervento di Oxfam al fianco della popolazione di Gaza a questo link.