“Vale davvero la pena denunciare?”. È la domanda che spesso mi viene rivolta da imprenditori, commercianti testimoni di giustizia, che hanno avuto il coraggio di farlo, soprattutto a certe latitudini dove nel secolo scorso lo Stato per decenni si è reso “latitante”: la Calabria! Ritardi, lentezze di un apparato burocratico ingarbugliato su se stesso e che ancora oggi fa fatica a dare risposte immediate a coloro che denunciano, a sostenerli nel loro faticoso cammino di profonda ed ingiusta solitudine.

Ripropongo all’attenzione dei lettori il “caso” di Tiberio Bentivoglio, testimone di giustizia di Reggio Calabria. Di lui hanno scritto in tanti anche Nando Dalla Chiesa che a febbraio del 2013, dalle pagine di questo sito lo definì “un imprenditore speciale che per non pagare il pizzo ha tenuto testa alla ‘ndrangheta reggina per vent’anni sfidando scogli e ciclopi traditori e come un Ulisse moderno, ha navigato su una zattera tutta sua tra la pavidità di funzionari pubblici”.

Una storia imprenditoriale che inizia a metà degli anni Settanta quando assieme alla moglie Enza (Vincenza) decise di dedicarsi al vasto mondo degli articoli sanitari, fino ai primi degli anni Novanta quando fecero il grande salto ed aprirono un vero e proprio emporio sanitario di oltre 450 mq, dando lavoro a diverse famiglie in un territorio, quello reggino, dove il lavoro da sempre scarseggia. Certo, non avrebbero mai potuto immaginare che quel salto di qualità attirasse le attenzioni della ‘ndrangheta.

Già, perché fino a quando rimani piccolo, più o meno nessuno ti calcola. Quando decidi di investire, però, da queste parti fai i conti con gli avvoltoi sempre pronti ad individuare le loro prede.

Iniziarono così i primi furti e dopo un po’ di anni il primo incendio doloso. Segno tangibile che da lì a breve ci sarebbe stata la richiesta di pizzo, ovviamente per evitare fastidi e danni di tal genere. Ma Tiberio è uno che non si piega, non vuole rinunciare alla sua libertà e dignità di onesto lavoratore. Trascorsi circa cinque anni una bomba devasta completamente l’emporio e dopo due anni ancora un altro incendio doloso. Tiberio è costretto sempre a ricominciare, nonostante le banche e i fornitori iniziano a prendere quelle che secondo le loro logiche utilitaristiche vengono definite “dovute cautele”.

Dopo la condanna dei suoi aguzzini nel 2011, la ‘ndrangheta decise che doveva pagare, questa volta con il suo stesso sangue. Mentre si trovava in campagna gli spararono ben sei colpi di pistola, uno lo ferì al polpaccio, un altro, fortunatamente, fu fermato dal marsupio che portava a tracolla sulla schiena.

Quella di Tiberio è una storia di coraggio e di solitudine, di ingiustificabili ritardi delle prefettura reggina, è dovuta intervenire Libera diverse volte per sollecitare il suo risarcimento, di attese di verità e di giustizia per le sue reiterate denunce.

Nel 2016 l’ultimo atto violento perpetrato nei suoi confronti, venne incendiato il deposito. Ricordo che la sera del giorno successivo, Libera Reggio organizzò una manifestazione proprio davanti al deposito. Una scena surreale tra puzza di bruciato, imposte di tutto il quartiere rigorosamente serrate e qualche centinaio di cittadini, molti provenienti da diverse parti della Calabria, a manifestare solidarietà. Salimmo a turno su un fasciatoio bruciato a denunciare e condannare tali episodi. Ricordo perfettamente alcune espressioni dure del giovane sindaco Giuseppe Falcomatà: “ci avete rotto le p….”. Parole che hanno incoraggiato tutti a continuare la lotta con ogni mezzo. Ma le parole, si sa, servono a poco se non sono poi seguite dai fatti.

Così a distanza di sei anni da quell’evento Tiberio si trova ancora nelle condizioni di dover nuovamente sperimentare la solitudine di chi pur vedendosi consegnato un bene confiscato da parte del Comune di Reggio e dallo stesso sindaco Falcomatà, grazie all’azione puntuale dell’allora capo della dda reggina Federico Cafiero De Raho, adesso deve fare i conti con affitti esosi in un periodo di profonda crisi economica, per non parlare poi di tutta una serie di circostanze che sono state ampiamente descritte e documentate nella sua ultima missiva indirizzata alle massime autorità governative nazionali, regionali e comunali.

Ho cercato personalmente di intervenire, chiedendo udienza che mi è stata gentilmente concessa a fine aprile. Nonostante l’impegno preso a sederci attorno ad un tavolo al più presto, sono trascorsi inutilmente venti giorni. Nostro intento è quello di collaborare con le amministrazioni locali nel loro non facile compito della gestione dei beni confiscati. Reggio Calabria è stata una dei primi comuni, grazie anche all’apporto di Libera, a dotarsi di regolamento interno per la gestione di tali beni. Ma questo non basta! Essi necessitano di una continua attenzione anche per quei beni non assegnati a seguito di procedure di evidenza pubblica che, come statuisce l’art. 48, comma 1 bis-c) “possono essere utilizzati dagli enti territoriali per finalità di lucro e i relativi proventi devono essere reimpiegati esclusivamente per finalità sociali”.

Per non parlare poi della delibera n. 17 del 27.04.2012 del Consiglio comunale di Reggio Calabria che ha riconosciuto, in favore delle imprese che hanno sporto denuncia contro il racket, le esenzioni per i tributi locali maturati dal 2012 in poi ed il diritto delle stesse a rateizzare le annualità di imposte e tasse locali. Un atto amministrativo davvero giusto e doveroso, qualora si dovesse decidere finalmente di applicarlo.

La lotta alla ‘ndrangheta ha bisogno di fatti concreti e coloro che denuciano non debbono per nessun motivo essere lasciati soli, né attendere tempi biblici prima di essere concretamente aiutati.

Articolo Precedente

Criminalità organizzata, il report del Viminale: “Durante la pandemia aumento del 9,7% delle interdittive antimafia”

next
Articolo Successivo

Ancora troppi inchini: la Santa Sede si impegna a spezzare i legami tra mafie e Chiesa

next