Sheikh Jarrah, il quartiere della parte Est di Gerusalemme, è arroccato su una delle venti colline su cui è adagiata la Città Santa per le tre grandi religioni monoteiste. Qui ci sono i consolati di quasi tutti i Paesi stranieri, c’è anche il moderno palazzo del QG del Quartetto, dell’Ue, della Fao e della Croce Rossa, anche il celebre hotel American Colony è parte del paesaggio. Il quartiere è al centro di una disputa nelle aule dei tribunali israeliani da decenni, dove le potenti organizzazioni dei coloni non escono mai battute.

Sheikh Jarrah, il cuore della ennesima crisi fra popolazione araba e amministrazione israeliana, un tempo era un frutteto ventilato meno di un chilometro a nord delle antiche mura della Città Vecchia di Gerusalemme. All’inizio del XX secolo, ricche famiglie palestinesi vi si trasferirono per costruire case moderne nella zona, sfuggendo alle strade strette e al trambusto della Città Vecchia. Il quartiere prende il nome dal medico personale del conquistatore Saladino, che si ritiene si sia stabilito lì quando gli eserciti musulmani strapparono la città ai crociati cristiani nel 1187.

Nel 1956, 28 famiglie palestinesi si stabilirono nel quartiere. Quelle famiglie facevano parte di una popolazione più ampia di 750mila palestinesi espulsi con la forza dall’esercito israeliano e dalle milizie ebraiche che l’affiancarono durante la guerra del 1948 – nota ai palestinesi come la Nakba o “catastrofe” – quando città arabe divennero parte di Israele. Gerusalemme Est era allora amministrata dal Regno hascemita di Giordania che governava la Cisgiordania. Amman costruì case per queste 28 famiglie palestinesi nel 1956 con l’approvazione dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, l’Unrwa.

Nei primi Anni 60, i componenti di queste famiglie raggiunsero un accordo con il governo giordano che li avrebbe resi proprietari dei terreni e delle case, ricevendo gli atti fondiari ufficiali firmati a loro nome dopo tre anni. In cambio, avrebbero rinunciato al loro status di rifugiati. Tuttavia, l’accordo fu interrotto quando Israele catturò e occupò la Cisgiordania e Gerusalemme Est nella Guerra dei Sei Giorni del 1967 e la Giordania perse il controllo di queste zone che passarono sotto la dizione di “territori palestinesi occupati”.
Attualmente ci sono 38 famiglie palestinesi che vivono a Sheikh Jarrah, che rischiano lo sfratto, la loro storia si trova in diverse fasi dei processi giudiziari, in un confronto a armi impari con i potenti gruppi di coloni israeliani..

Da quando Israele ha conquistato Gerusalemme Est nella guerra del 1967, le organizzazioni dei coloni israeliani hanno rivendicato la proprietà della terra a Sheikh Jarrah e hanno intentato diverse cause legali – con successo – per sfrattare i palestinesi dal quartiere. Due gruppi di coloni hanno intentato una causa sostenendo che gli ebrei sefarditi possedevano questa terra nel 1885, durante il dominio ottomano che si concluse nel 1917.

Israele ha una grande strategia di insediamento chiamata “Bacino Sacro” che è un insieme di unità abitative per i coloni e una serie di parchi ispirati a luoghi e figure bibliche intorno alla Città Vecchia di Gerusalemme. Il piano prevede la rimozione delle case palestinesi nella zona. Lo scorso novembre, un tribunale israeliano ha ratificato lo sfratto di 87 palestinesi dalla zona di Batan al-Hawa nel quartiere arabo di Silwan, a sud della moschea di Al-Aqsa, a favore del gruppo di coloni israeliani di Ateret Cohanim. Questo gruppo con forti finanziamenti stranieri, che mira a espandere la presenza dei coloni all’interno dei quartieri palestinesi di Gerusalemme Est e all’interno della Città Vecchia, aveva citato in giudizio i residenti di Batan al-Hawa, sostenendo che la terra era di proprietà degli ebrei yemeniti durante il periodo ottomano e fino al 1938, quando il mandato britannico li spostò a causa delle tensioni politiche.

La legge israeliana lavora a favore dei coloni consentendo soltanto agli ebrei di rivendicare proprietà che sostengono di aver posseduto prima del 1948, negando invece lo stesso diritto ai palestinesi. Domenica scorsa, la Corte Suprema israeliana ha ordinato a cinque famiglie – composte da 30 adulti e 10 bambini – di evacuare le loro case di Sheikh Jarrah entro il 6 maggio. Queste famiglie sono state sballottate in diversi tribunali per quasi quattro anni. I giudici hanno concesso i diritti su questi appezzamenti ai discendenti delle comunità ashkenazita e sefardita. Un’organizzazione chiamata Nahalat Shimon International – un’azienda Usa registrata in Delaware, Stato noto per le leggi societarie che ostacolano la trasparenza ed è quindi impossibile sapere chi possiede azioni della società – è responsabile di questo processo e sostiene la battaglia legale dei coloni per le terre. In due casi, l’anno scorso, i giudici hanno appoggiato le rivendicazioni della proprietà ebraica.

Da allora, i residenti palestinesi di Sheikh Jarrah sono stati trattati come inquilini di fronte ai tribunali israeliani, affrontando ordini di rimozione per consentire ai coloni di prendere in consegna le loro case. I palestinesi avevano chiesto alla Giordania di rilasciare carte e documenti ufficiali per dimostrare la loro proprietà. In aprile, il ministro giordano degli Affari Esteri, Ayman Safadi, ha consegnato documenti che dimostrano la proprietà palestinese delle loro proprietà a Sheikh Jarrah, nel tentativo di impedire un nuovo sfratto di massa. La scorsa settimana, il governo giordano ha ratificato 14 accordi degli Anni 60 con le famiglie palestinesi a Sheikh Jarrah per rafforzare la loro posizione contro i tribunali israeliani.

L’area è un punto focale della protesta a Gerusalemme alla quale partecipano anche attivisti israeliani. “Peace Now” è fra le organizzazioni israeliane la più attiva nel sostenere che, in base al diritto internazionale, i tribunali d’Israele non hanno l’autorità di insediare i civili nei Territori palestinesi occupati, mentre lo sfollamento delle famiglie palestinesi vìola i fondamenti del diritto internazionale umanitario. Le Nazioni Unite sono piuttosto pallide sulla questione. Dal Palazzo di Vetro si limitano a ripetere che “tutte le attività di insediamento, sfratti e demolizioni, sono illegali secondo il diritto internazionale”. Nel frattempo, però, la realtà sul campo continua a cambiare.

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