Cinema

Oscar 2021, i candidati per la miglior regia. Ecco tutti i nomi, ma il nostro cuore batte solo per uno di loro

I cambiamenti dovrebbero avvenire per manifesta superiorità artistica e non programmaticamente con costrizioni per accedervi, ma (forse) questo è un altro discorso

di Davide Turrini

Due donne, due asiatici, un danese, età media: 45 anni. Le nomination per assegnare l’Oscar come migliore regia nel 2021, dopo la radicale trasformazione delle regole di ammissione dell’Academy, e durante la pandemia Covid 19 accendono la casella dell’inconsueto. Rivoluzionario ancora no, perché i cambiamenti dovrebbero avvenire per manifesta superiorità artistica e non programmaticamente con costrizioni per accedervi, ma (forse) questo è un altro discorso.

Mettiamo comunque insieme i candidati: Lee Isaac Chung (“Minari”), Emerald Fennell (“Promising Young Woman”), David Fincher (“Mank”), Thomas Vinterberg (“Another Round”) e Chloé Zhao (“Nomadland “). Appunto, due donne (Fennell, Zhao), due registi di origine asiatica (Zhao, Chung), un danese (Vinterberg) e l’età media di 45 anni (la Fennell ha 35 anni, Zhao 39 e Chung 41). Ad un regista di levatura spaziale come Fincher non rimane che fare un po’ l’Andrea Renzi de L’uomo in più che arriva alla festa vestito da Platini. Un omaccione già avanti con l’età (58 anni), uno che ha reso il genere thriller sontuoso cinema autoriale (Seven, Fight club, ma santa pace Zodiac e The social network che diavolo di capolavori sono?), e che si è pure messo a fare un film su una figura non proprio lucente della Hollywood in bianco e nero anni trenta/quaranta: Mank, ovvero lo sceneggiatore alcolista e mal digerito dai potenti di Quarto potere, Herman Mankiewicz.

Quindi se candidi Fincher agli Oscar (le nomination per lui sono con questa tre, – Il curioso caso di Benjamin Button e The social network) come miglior regia, o lo premi oppure lo utilizzi come agnello sacrificale nell’agone della Hollywood new style. Infatti se dovessimo seguire i bookmakers ecco che a seguire Lina Wertmuller (Pasqualino Settebellezze, 1977) e Kathryn Bigelow (The Hurt Locker, 2010) ci sarebbe la terza regista donna della storia degli Oscar a vincere la statuetta per la miglior regia: Chloé Zhao. Volessimo allargare lo sguardo oltre il quadro e la messa in scena (realistica, oseremmo dire) della Zhao, Nomadland non è di certo un film che si impone per la sua idea generale di regia oltre a possedere l’anelito filosofico flebile di un concetto terribile come la “resilienza”. La solita tradizionale passività tipica dell’individualismo socio-antropologico statunitense pronto a far subire, ma senza far perdere del tutto l’equilibrio, le ineguaglianze del sistema economico sulla protagonista nomade, vita itinerante su un camper, Frances McDormand (per dire: quell’elogio privo di contraddizioni di Amazon è davvero un pugno nell’occhio della storia del lavoro).

Discorso leggermente diverso per Lee Isaac Chung, regista di Minari. Nella storia di questa famiglia coreana che, vagamente simile alla protagonista di Nomadland, si sposta su uno di quei prefabbricati mobili tipicamente da conquista di una fetta di terra americana intonsa nell’Arkansas dei primi anni ottanta. Chung lavora con elegante precisione formale, il taglio dell’inquadratura invita ad una poetica e dolente immedesimazione con i protagonisti, la strutturazione di uno scheletro ricorrente di narrazione è connotato da un dettato estetico pregnante. Insomma, le possibilità per un Bong Joon-ho atto secondo ci stanno tutte, anche se la forza visionaria in battere di Parasite non è paragonabile con l’approccio più da scultore in levare dell’accumulo di senso come Chung.

Dire che Vinterberg e Fennell gareggiano per l’Oscar è, se permettete l’iperbole, un’offesa alla nostra intelligenza di cronisti della notte degli Oscar. Il regista danese propone con Another Round la sua solita storiella bizzarra (quanto influisce una goccia di alcool in più nel sangue nella creatività di quattro insegnanti demotivati), di certo non in spolvero per chissà quale idea di regia, se non la riduzione ad un dondolio della macchina da presa modello Von Trier ad ogni stormir di fotogramma. Emerald Fennell è una brava attrice (Mr.Nice, The Crown, Albert Nobbs, Anna Karenina) che ha preso a cuore la storia di una donna (Carey Mulligan) che si vuole vendicare dei colpevoli dello stupro della sua migliore amica. Anche qui, la nomination sembra come dovuta al delirio delle “quote” (rosa, verdi, gialle e blu) che rispettano canoni etici generali più che chissà quale dispositivo di originalità e di eloquenza per una commedia nemmeno del tutto nera (anche se vorrebbe esserlo) che ha i suoi alti e i suoi bassi (anche proprio nel ritmo generale).

Giusto un paio di dati per concludere. Solo cinque candidati asiatici sono stati nominati prima di Zhao e Cheung, ma mai insieme. Se vincesse uno di loro sarebbe il quarto dopo i due Oscar di Ang Lee (“Brokeback Mountain”, 2006 e “Life of Pi “, 2013) e Bong Joon Ho (” Parasite “, 2020). Questo è anche il quarto anno (dopo il 1967, 1977 e 2019) in cui due film con dialoghi principalmente non inglesi (“Another Round” e “Minari”) sono finiti in nomination. Riepilogo finale per gli ultimi cinque vincitori dell’Oscar come miglio regia: Bong (“Parasite,” 2020), Alfonso Cuarón (“Roma,” 2019), Guillermo del Toro (“The Shape of Water,” 2018) e Damien Chazelle (“La La Land, “2017). Insomma, comunque vada, qualche gradino sotto i precedenti cinque anni ci rimaniamo di sicuro.

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