di Luigi Sala

Bere acqua non è un affare per lo Stato ma lo è per poche grandi multinazionali per le quali l’imbottigliamento, in vetro o in pec, delle acque minerali è un affare assai redditizio. Un rapporto di Legambiente del 2014 stima l’esistenza in Italia di 296 marchi posseduti da poche grandi multinazionali come Danone, Nestlè (o da famiglie nostrane al riparo dalle luci della ribalta) secondo altre fonti sono invece oltre 260 i marchi distribuiti in circa 140 stabilimenti che imbottigliano oltre 14 miliardi di litri necessari per garantire il consumo nazionale.

Tale mercato non conosce crisi: un giro d’affari stimato intorno ai 10 miliardi euro all’anno, con un fatturato per le sole aziende imbottigliatrici che i rapporti di settore stimano in 2,8 miliardi di euro, di cui solo lo 0,6% arriva nelle casse dello Stato. Uno Stato molto “morbido” con queste aziende che infatti pagano canoni che raggiungono al massimo i 2 millesimi di euro al litro (un costo di 250 volte inferiore rispetto al prezzo medio di vendita dell’acqua in bottiglia).

Le leggi: il D.Lgs.31/2001 disciplina le acque potabili, mentre per le acque minerali i valori limite e i parametri di controllo sono stabiliti dal Decreto del Ministero della sanità 542/1992. Un confronto permette di notare che per alcuni contaminanti (ovvero sostanze inquinanti che è possibile trovare nell’acqua) è previsto un limite di concentrazione per le acque di rubinetto ma non per quelle in bottiglia: ovvero si parla, ad esempio, del benzene, del benzo(a)pirene, del nichel o dell’ammonio. Per altri contaminanti, invece, il limite nelle acque in bottiglia è di molto superiore a quello dell’acqua di rete; è il caso dell’arsenico, consentito in concentrazione massima di 10 μg/l nelle acque di rete e in ben 50 μg/l per le acque in bottiglia.

Non risulta un limite per sostanze tossiche come l’arsenico, il cadmio, il mercurio o il piombo. Incredibilmente queste sostanze tossiche, se ci sono, non devono neanche essere dichiarate in etichetta se non superano determinate concentrazioni. In altre parole, può esserci arsenico in quantità illimitata e, se non supera i 0,2 milligrammi per litro, non è necessario dichiararlo nella composizione dei minerali in etichetta.

Il decreto ministeriale n. 542/1992 ha permesso di non specificare in etichetta 19 sostanze tossiche o indesiderabili, qualora non raggiungano una determinata concentrazione. Fra queste, vi sono anche il cadmio (non dichiarato fino a 10 microgrammi/litro), il nichel (nessun limite), il cromo trivalente (nessun limite) ed è quello maggiormente presente nelle acque. I nitrati, che sono indizio di inquinamento e potenzialmente cancerogeni, non devono essere dichiarati se non superano i 45 milligrammi/litro.

Ma perché si è così generosi con chi fa affari sull’acqua, bene essenziale per ogni essere vivente? Si sa che la nostra rete idrica non è adeguata: uno dei maggiori problemi resta da anni l’elevata dispersione, che arriva a una media del 40,6% contro quella europea del 23%. Solo lo scorso anno, secondo l’Istat, il 9,4% delle famiglie italiane ha lamentato un’erogazione irregolare dell’acqua nelle abitazioni. Pare che lo Stato, conscio dei suoi limiti incoraggi chi fornisce acqua a pagamento favorendo un mercato che inquina severamente con i vuoti in plastica, sottrae acqua dal sottosuolo, lasciando pochissimi soldi in tasse di concessione.

L’acqua pubblica, sempre molto bene controllata, non produce dividendi e non rincorre la fidelizzazione del consumatore ma è una ricchezza pubblica essenziale e va tutelata anche a discapito dell’interesse di imprese che sull’acqua (nostra) hanno lucrato fin troppo.

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