La grande discussione che si è aperta nel Paese sulla Next Generation Eu (Ngeu) dovrebbe prevedere una sessione riservata al tema dell’invecchiamento della popolazione e al grande impatto che questo fenomeno provocherà nel prossimo futuro sul sistema pensionistico e sulla rete dei servizi socio-sanitari. Si tratta di un tema complesso con implicazioni di enorme portata che non possono essere ignorate o che, ancor peggio, non possono essere risolte con semplificazioni e slogan. Una di queste scorciatoie è quella di chi pensa che la soluzione del problema possa essere trovata riservando qualche risorsa aggiuntiva alle strutture di ricovero e cura.

Illudersi che qualche posto-letto in più possa permettere di far fronte ai bisogni e alle criticità indotte dai grandi cambiamenti sociali e demografici dei prossimi anni, significa non aver capito nulla dei veri problemi che si profilano all’orizzonte.

Si stima che nel 2050 un italiano su tre avrà più di 65 anni. L’incremento dell’età media andrà di pari passo con l’aumento del numero di soggetti a rischio di perdere la salute e l’autonomia psico-fisica. Nel contempo l’evoluzione della struttura socio-economica ha ridotto le risorse umane e famigliari in grado di dedicarsi alla cura e all’assistenza dei congiunti: sono cambiati gli stili di vita, i nuclei famigliari si sono atomizzati, è cresciuto il tasso di partecipazione femminile al mondo del lavoro e tutto ciò ha contribuito a ridurre la possibilità di sopperire con caregiver famigliari alle necessità di cura e assistenza della popolazione anziana.

Pensare però che, in questo scenario, le Rsa possano garantire una risposta esauriente ai futuri bisogni della popolazione anziana costituisce una pia illusione. Già oggi non è così e, col passare degli anni, il problema è destinato ad ingigantirsi. I posti-letto attualmente disponibili nelle Rsa ogni 1.000 anziani residenti sono oggi 18,6 in Italia contro i 74,8 dei Paesi Bassi, i 54,4 della Germania e i 51,0 della Francia. La media Ocse è di 43,8. L’Osservatorio dalla Liuc Business School ha calcolato che se oggi volessimo allineare la nostra offerta a quest’ultimo dato dovremmo incrementare i posti letto di 350mila unità! Uno sforzo inimmaginabile ed impossibile che, oltretutto, rischierebbe di non essere sufficiente per rispondere in modo esaustivo alla complessità e pluralità di domande che l’invecchiamento della popolazione riverserà, nei prossimi decenni, sul nostro sistema di Welfare.

La crisi economica, la precarizzazione dei rapporti di lavoro, le difficoltà nell’accesso al credito e la progressiva perdita del potere d’acquisto delle pensioni, associati ai costi crescenti dei servizi, incidono negativamente sulla possibilità, per molte famiglie, di garantire l’integrale pagamento delle rette di ricovero. Né possiamo illuderci che questo problema possa essere risolto dall’incremento della compartecipazione di un sistema pubblico già oggi gravemente zavorrato da un debito enorme e crescente.

E dunque: la vera scommessa che il Ngeu potrebbe mettere in campo è quella correlata alla possibilità di anticipare la domanda di posti-letto promuovendo, a monte, soluzioni residenziali che prevengano e contengano la richiesta di ricoveri. Tale obiettivo potrà essere perseguito attraverso una molteplicità di azioni e interventi che andrebbero a dar vita ad un Piano straordinario per “l’abitare anziano” attraverso il quale verranno offerte soluzioni residenziali alternative e innovative per la Terza età. “Invecchiare a casa propria” potrebbe insomma essere il titolo di una vera e propria strategia di medio-lungo periodo che metta in gioco risorse e progettualità adeguate a fronteggiare con razionalità un tema che è destinato a influenzare pesantemente il futuro del nostro Paese.

Prima ancora di pensare all’incremento dei ricoveri occorre quindi chiedersi in che misura e in che tempi una seria e incisiva politica di miglioramento delle condizioni abitative potrà consentire di ridurre l’incremento delle domande di istituzionalizzazione? La risposta a queste domande deve naturalmente fondarsi anche sulla capacità di traguardare l’esistente, scommettendo anche su ipotesi particolarmente innovative. L’esempio è quello della Danimarca che nel 1986 ha scelto di bloccare l’apertura di nuove Rsa (Nursing Homes) optando per la realizzazione di un piano straordinario di senior housing centrato su soluzioni abitative caratterizzate dalla presenza diffusa di innovativi requisiti strutturali e tecnologici e dal forte incremento dell’offerta di servizi socio-sanitari a domicilio e di quartiere. L’attuazione di questo Piano ha permesso alla Danimarca di ridurre drasticamente il numero dei posti letto in Rsa.

Un buon Piano straordinario per “l’abitare-anziano” dovrà quindi riuscire a differenziare i propri interventi a vari livelli rispondendo alla complessità dei bisogni espressi dalla popolazione anziana e sviluppando azioni specifiche su una pluralità di ambiti. Dall’ambito urbanistico – funzionale alla piena integrazione delle unità di offerta abitative nel tessuto urbano e residenziale – all’ambito architettonico e progettuale che deve curare gli aspetti relativi alla accessibilità, alla fruibilità degli ambienti, all’adeguamento degli spazi illuminati, alla presenza di spazi e servizi comuni funzionali alla socializzazione e alla riduzione del carico “lavorativo” individuale. Dall’ambito strutturale – relativo alla messa a norma degli impianti, alla eliminazione delle barriere e alla idoneità delle condizioni igienico-sanitarie – all’ambito tecnologico che mette in gioco i temi della domotica e delle tecno-assistenze funzionali alla riduzione dei trasferimenti, alla tutela della sicurezza personale e ambientale, allo sviluppo della telemedicina.

Un ulteriore e decisivo ambito di azione è quello relativo al potenziamento degli attuali livelli di servizio socio-sanitario extra-ospedaliero fra cui ricordiamo i centri diurni, le residenze assistite e, soprattutto, i servizi a domicilio: il processo di cura, se inteso come presa in carico globale e multidimensionale della persona, non può infatti non tener conto dei benefici effetti che l’ambiente domestico può produrre sulla sfera biologica e psicologica dei pazienti. La persona malata preferisce di norma essere curata a casa perché la propria abitazione rappresenta per lei un luogo conosciuto, rituale, sicuro, protetto. Un ambiente che rassicura perché amplifica gli spazi decisionali e autonomi e contribuisce, spesso in modo decisivo, a contrastare l’aggravamento della malattia.

La possibilità di riuscita di un Piano così ambizioso necessita, in primo luogo, di una buona predisposizione culturale delle classi dirigenti che devono essere disponibili a garantire la piena consapevolezza dell’impatto sul fronte politico ed economico delle problematiche sopra esposte. Questa disponibilità – che purtroppo attualmente mi sembra molto lontana dalle sensibilità prevalenti nelle élite politico-economiche che guidano il nostro Paese – potrebbe essere amplificata dalla consapevolezza delle potenzialità e dei benefici diretti e indiretti che il Piano potrebbe generare a vari livelli e, in particolare, sul versante della spesa socio-sanitaria.

L’attuazione del Piano presuppone, inoltre, la convergenza di una ulteriore quantità di requisiti e fattori funzionali alla sua buona riuscita: servono strategie innovative, pre-condizioni politiche e amministrative, visioni e progettualità che sappiano guardare ben oltre il quotidiano. E serve senza ombra di dubbio una mobilitazione straordinaria di risorse, finanziamenti, contributi e incentivi che, all’interno di un vasto piano di investimenti, possa assicurare un’efficace sinergia fra strutture e privati, investitori istituzionali, fondi pensione e casse di previdenza, assicurazioni, aziende socio-sanitarie ed enti locali.

Vasto programma! Ma in una fase in cui si parla spesso a sproposito di “grandi opere” penso sia lecito anche solamente immaginare scenari e progetti certamente ambiziosi, ma forse più concreti, utili e lungimiranti del Ponte sullo Stretto o delle Alte Velocità.

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