Poco più venti giorni fa l’annullamento della sentenza d’appello. Oggi la Cassazione ha motivato la decisione di ordinare un nuovo appello per i due uomini imputati nel caso di Martina Rossi, la 20enne genovese, morta il 3 nel 2011 a Palma di Maiorca. Secondo gli ermellini i giudici di appello che avevano assolto Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi, con un “esame invero superficiale del compendio probatorio, hanno ritenuto di ricostruire una diversa modalità della caduta della ragazza, cadendo in un macroscopico errore visivo di prospettiva nell’esaminare alcune fotografie, quanto all’individuazione del punto di caduta, individuandolo nel centro del terrazzo”. Per i magistrati della III sezione penale della Suprema corte quindi il processo d’appello va celebrato nuovamente.

Secondo i supremi giudici, nella sentenza di appello sono stati ”depotenziati tutti gli elementi fattuali certi della scena del tragico evento come emergenti dagli atti, depotenziando, altresì la portata delle altre circostanze indizianti certe (i graffi sul collo di Albertoni ed il mancato rinvenimento sul cadavere della vittima dei pantaloncini del pigiama) e con un ragionamento di evidente incongruenza logica, hanno assolutizzato le dichiarazioni del testimone oculare della precipitazione di Martina sminuendo altresì il narrato degli altri testimoni de auditu, però essenziali per individuare la diacronicità degli accadimenti, ossia quanto riferito dai turisti danesi che occupavano la stanza a fianco di quella ove si trovavano i giovani imputati”. “La sentenza impugnata – scrivono i giudici della Cassazione – non è capace di resistere, considerata sia l’incompletezza, sia la manifesta illogicità, sia la contraddittorietà della motivazione redatta dal Collegio di appello, risultando tale motivazione priva di una visione sistematica dell’intero quadro istruttorio e non esaustiva e osservante dei principi giurisprudenziali”.

Tutto inizia la sera del 3 agosto 2011: le compagne di viaggio di Martina si chiudono in stanza con due ragazzi. Lei sale in stanza con i due ragazzini, ma dopo venti minuti si sente un urlo straziante – come raccontato da due cittadini danesi che sono nella camera accanto – e i passi precipitosi di qualcuno per le scale. La ragazza è a terra senza vita dopo un volo dal sesto piano. Non ha le ciabatte e non ha indosso i pantaloncini. Le indagini spagnole però si chiudono con un nulla di fatto: archiviazione con l’ipotesi del suicidio. Una cameriera ha visto la giovane gettarsi giù, ma sono molte le incongruenze in quella ricostruzione.

La famiglia della ragazza inizia una lunga battaglia. L’inchiesta italiana viene aperta a Genova, città di residenza di Martina, e si chiude nel 2014 con quattro indagati quattro persone: a due viene contestata la falsa testimonianza. Il filone principale passa passa ad Arezzo per competenza territoriale: i due indagati sono di Castel Fibocchi. Un passaggio questo tra procure che però prende quasi tre anni. Gli inquirenti toscani decidono di riesumare il cadavere per eseguire una nuova autopsia: le indagini vengono chiuse il 12 febbraio 2017, il 28 novembre dello stesso anni i due giovani vengono rinviati a giudizio per tentata violenza sessuale di gruppo e morte in conseguenza di un altro reato (reato per cui è stata dichiarata la prescrizione). La 20enne cercava di sfuggire, secondo la ricostruzione degli inquirenti, da un tentativo di stupro ed essendo chiusa la porta ha tentato di scavalcare per raggiungere il balcone della sua stanza. I due imputati, attraverso la difesa, sostengono di non aver nulla di male e che Martina si è tolta la vita. Il processo di primo grado dura poco più di un anno e si conclude con la richiesta di pena dell’accusa di 7 anni e la condanna degli imputati a sei anni. Poi in appello l’assoluzione per il reato non cancellato dalla prescrizione. Il ricorso alla Cassazione e la decisione.

Dalle motivazioni emerge la verità su quanto successo a mia figlia. Ma sono stati persi dieci anni. Dieci anni in cui io e mia moglie abbiamo lottato perché potevamo. Ma se ci fossero stati altri due genitori senza le nostre risorse, come avrebbero fatto” dice all’Ansa Bruno Rossi, il papà di Martina. “Ci hanno tolto la vita, la cosa più bella del mondo. E i giudici di appello stavano facendo passare un brutto segnale: che chi compie una nefandezza tale può pensare di farla franca. Ma queste persone, e anche chi ci comanda, hanno una coscienza? Hanno dei figli, nipoti a cui potrebbe succedere una cosa del genere?. Da queste motivazioni – prosegue Rossi – emerge quanto successo a Martina: pensava di trovare due persone normali e invece ha trovato due delinquenti. Io mi chiedo come, con tutte le evidenze raccolte nelle indagini, abbia fatto a durare così tanto tutto l’iter processuale? E poi, tutti solidali contro di lei: tutte queste bugie, i mezzucci, i sotterfugi sono stati difficili da comprendere e sono stati un dolore grande. “Spero che adesso ci sia una sentenza di condanna e non una presa in giro. Questa sentenza è stata possibile perché noi abbiamo lottato per dieci anni. Ma come fanno le persone normali per avere giustizia? In che Paese viviamo?”.

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