Nuovo processo d’appello per il caso di Martina Rossi, la 20enne genovese, morta il 3 nel 2011 a Palma di Maiorca. La Cassazione ha accolto la richiesta del sostituto procuratore generale, Domenico Seccia, che con una requisitoria scritta aveva già sollecitato l’annullamento della sentenza d’appello di assoluzione e un nuovo processo, per i due giovani aretini Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi. Secondo il procuratore nel giudizio di secondo grado ci sarebbero stati “indizi non valutati”, che la “motivazione” è “contraddittoria” e che la “valutazione” è “frazionata e priva di logica degli indizi” con una “travisazione di circostanze decisive”. Senza dimenticare che per i due imputati è stata dichiarata la prescrizione del reato di morte in conseguenza di altro reato e per quel reato, ovvero una tentata violenza sessuale, sono stati appunto assolti.

È un passo verso la giustizia – dicono Bruno Rossi e Franca Murialdo, i genitori di Martina -. Abbiamo fatto un primo pezzo di strada, ora speriamo di fare anche l’altro. Speriamo di correre veloci evitando ostacoli come la prescrizione affinché si riescano ad affermare le responsabilità per la morte di nostra figlia”. “Ce l’abbiamo fatta. Era indispensabile questo annullamento per fare chiarezza” dichiara Bruno Rossi – Adesso si lavora per avere il minimo di giustizia. Martina non me la ridarà nessuno, ma almeno si saprà cosa è successo quella notte. Ci hanno provato in tutti i modi a distruggere me e mia moglie. A raccontare un’altra storia. Ma io sono più duro di loro e non ho mai ceduto. Avevo una forte delusione dopo la sentenza d’appello. Quelle motivazioni – ha detto il papà di Martina – hanno cancellato il lavoro della polizia, dei primi giudici. Pensare poi che quelle motivazioni le ha scritte una donna non riesco a mandarlo giù. Non ha pensato che poteva succedere anche a lei, alle sue figlie? Si mettono le scarpe rosse e poi quando hai la possibilità di punire chi fa del male a una donna, fai le cose diversamente. Adesso bisogna lottare contro il tempo per evitare la prescrizione – conclude Rossi – e arrivare a ristabilire la verità per Martina, perché se lo merita“. Sul nuovo appello incombe la prescrizione del reato rimasto che cadrà ad agosto 2021. “È una grandissima soddisfazione. Quello che abbiamo sempre ritenuto su quanto successo ha trovato accoglimento- dice Stefano Savi, uno degli avvocati dei genitori di Martina Rossi – Adesso si può arrivare fino in fondo e arrivare ad accertare la verità. Abbiamo fatto tanto per arrivare a stabilire la verità. Bisognerà dare l’ultimo colpo di reni per evitare la prescrizione“.

La morte a Palma di Maiorca – Tutto inizia la sera del 3 agosto 2011: le compagne di viaggio di Martina si chiudono in stanza con due ragazzi. Lei sale in stanza con i due ragazzini, ma dopo venti minuti si sente un urlo straziante – come raccontato da due cittadini danesi che sono nella camera accanto – e i passi precipitosi di qualcuno per le scale. La ragazza è a terra senza vita dopo un volo dal sesto piano. Non ha le ciabatte e non ha indosso i pantaloncini. Le indagini spagnole però si chiudono con un nulla di fatto: archiviazione con l’ipotesi del suicidio. Una cameriera ha visto la giovane gettarsi giù, ma sono molte le incongruenze in quella ricostruzione.

Le indagini prima in Liguria e poi in Toscana e il processo – La famiglia della ragazza inizia una lunga battaglia. L’inchiesta italiana viene aperta a Genova, città di residenza di Martina, e si chiude nel 2014 con quattro indagati quattro persone: a due viene contestata la falsa testimonianza. Il filone principale passa passa ad Arezzo per competenza territoriale: i due indagati sono di Castel Fibocchi. Un passaggio questo tra procure che però prende quasi tre anni. Gli inquirenti toscani decidono di riesumare il cadavere per eseguire una nuova autopsia: le indagini vengono chiuse il 12 febbraio 2017, il 28 novembre dello stesso anni i due giovani vengono rinviati a giudizio per tentata violenza sessuale di gruppo e morte in conseguenza di un altro reato. La 20enne cercava di sfuggire, secondo la ricostruzione degli inquirenti, da un tentativo di stupro ed essendo chiusa la porta ha tentato di scavalcare per raggiungere il balcone della sua stanza. I due imputati, attraverso la difesa, sostengono di non aver nulla di male e che Martina si è tolta la vita. Il processo di primo grado dura poco più di un anno e si conclude con la richiesta di pena dell’accusa di 7 anni e la condanna degli imputati a sei anni. È il 14 dicembre 2018.

Per i giudici di primo grado morì per sfuggire a stupro – Nelle motivazioni del verdetto di condanna i giudici scrivono che “qualcuno spogliò la studentessa… per abusarne in una camera al sesto piano dell’hotel di Palma di Maiorca (Spagna)” e nella stanza c’erano solo gli imputati. In 113 pagine i giudici ricostruiscono l’intera vicenda e inquadrano le testimonianze per provare i reati contestati. Per sostenere la sussistenza del tentativo di violenza i magistrati sottolineano pure la sparizione dei pantaloncini e delle ciabatte che la ragazza indossava. “I suoi occhiali invece sono stati fatti ritrovare perfettamente puliti”. Nelle motivazione si sottolinea come la studentessa non bevesse né facesse uso di droga: “Non aveva assunto sostanze stupefacenti né psicofarmaci come dimostrano le analisi tossicologiche fatte nell’immediatezza dai tecnici spagnoli sui campioni prelevati in autopsia che escludono con certezza anche la presenza di alcol nel corpo della ragazza”. Martina non era in cura farmacologica e “non aveva mostrato alcun interesse sessuale né per Albertoni né per Vanneschi”. Per i giudici “i graffi sul collo di Alessandro Albertoni erano ben evidenti e visibili”, segni di un tentativo di reazione della giovane. E lui stesso ad ammettere che gli sono stati fatti dalla studentessa. Ne consegue per i giudici che “Martina Rossi ha reagito ad un tentativo di violenza nei suoi confronti“. La conclusione è che Martina ha tentato una fuga disperata dai suoi aggressori: vede il muretto sul balcone che separa la stanza dei due giovani da un’altra e lo considera una via di fuga, ma in preda alla paura e tradita dalla scarsa vista, poiché è miope e non ha gli occhiali, perde l’equilibrio e cade nel vuoto, quasi sulla verticale del muretto stesso. Come loro diritto gli imputati hanno presentato ricorso. Il muretto che separa le due camere, un divisorio di circa un metro di altezza e quaranta centimetri di larghezza, secondo i legali della difesa, Stefano Buricchi e Tiberio Baroni, avvocati rispettivamente di Luca Vanneschi e Alessandro Albertoni, sarebbe stato, invece, la prova del suicidio della giovane perché – questa la tesi sostenuta durante tutto il dibattimento – poteva essere scavalcato con facilità, e se Martina avesse voluto scappare avrebbe potuto farlo senza grosse difficoltà.

La prescrizione di un reato e l’assoluzione in appello – Il processo d’appello inizia quasi un anno dopo il verdetto di primo grado. Lo scorso 28 novembre la presidente della corte d’appello di Firenze però dichiara prescritto il reato di morte in conseguenza di un altro reato, cancellato dal troppo tempo trascorso lo scorso febbraio. Il dibattimento viene rinviato il processo al 20 settembre 2020 per dare spazio e tempo a processi con imputati detenuti. Un rinvio lunghissimo che dopo le polemiche innescato è stato poi fissato al 19 febbraio 2020. La sentenza arriva il 9 giugno ed è un verdetto di assoluzione. Il 28 luglio scorso vengono depositate le motivazioni. Per i giudici di secondo grado l’aggressione sessuale non può “del tutto escludersi”, ma la ragazza non stava scappando da uno stupro quando morì. ”L’esclusione a cui la corte è pervenuta del tentativo di fuga della ragazza e la non provata commissione” della tentata violenza – si legge nelle motivazioni – “non possono dunque che portare a ritenere carente la prova” del reato. Per l’accusa Martina sarebbe caduta dal terrazzo mentre cercare di sfuggire al tentativo di violenza da parte dei due imputati. Ipotesi fondata su due elementi: il fatto che Martina fosse in mutandine quando è precipitata, e che Albertoni avrebbe avuto graffi sul collo. Secondo la corte però si tratta di due elementi “troppo poco significativi” perché “possa da essi soltanto desumersi una condotta diretta al compimento di una violenza sessuale“. La corte d’appello ha ritenuto di escludere la fuga basandosi anche sulla testimonianza di una cameriera spagnola che riferì di aver visto Martina scavalcare il balcone e lasciarsi cadere. Per i giudici “un’aggressione di carattere sessuale non può, invero, neppure del tutto escludersi“. Ma appunto “la caduta della ragazza con le modalità emerse è elemento non coerente con tale ipotesi“, è “dissonante”, non “si salda logicamente con essa”. Secondo i giudici d’appello, inoltre, quanto accaduto a Martina è stato oggetto di un’indagine “sorta e conclusa in Spagna, ripresa e sviluppata a Genova e nuovamente sviluppata e conclusa ad Arezzo, con esiti di volta in volta quanto più contraddittori tra loro, pur se in base, in sostanza, alle medesime risultanze, ciò che vale indirettamente a confermare la scarsa e quindi opinabile valenza indiziaria, per la loro incoerenza , degli elementi acquisiti”.

Riguardo poi all’intercettazione di un colloquio tra i due imputati, avvenuto il 7 febbraio 2012 negli uffici della polizia giudiziaria di Genova, che aveva portato alla riapertura del caso dopo l’archiviazione in Spagna come suicidio, per la corte d’appello di Firenze, che ha ribaltato la sentenza di primo grado del tribunale di Arezzo, non appare “offrire elementi significativi di valutazione”: non sono desumibili “dirimenti ammissioni dei fatti da parte degli imputati” sulla presunta violenza sessuale. Anzi quei messaggi appaiono di “tenore equivoco se non addirittura favorevoli agli imputati come fatto valere dagli appellanti”: il fatto che “si rallegrassero che non fossero emersi elementi di reati in materia sessuale dagli accertamenti in corso può ragionevolmente ben spiegarsi sia con l’ipotesi che i reati fossero stati effettivamente commessi, sia con l’ipotesi opposta poiché, comunque, nell’uno come nell’altro caso si sarebbe trattato di circostanza favorevole alla loro posizione”. Contro questa motivazione hanno presentato ricorso la famiglia di Martina e il procuratore generale di Firenze. Con l’approdo in Cassazione.

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