Da sempre, la classe dirigente declina la questione idrogeologica italiana con un solo chiodo fisso, i soldi. Mancano i soldi! I soldi non bastano. Più che l’esito di un pensiero debole, “il pensiero è stato assente. È subentrato solo il nulla, il disinteresse. Anzi, è rimasto solamente un interesse, preciso e assillante, l’ossessione di chi non sa che cosa dire: i soldi. Anzi, i soldi per fare le opere. Un pretesto famoso: tutto è questione dei soldi, colpa dei soldi, storia di soldi” (Bombe d’Acqua, alluvioni d’Italia dall’unità al terzo millennio, Marsilio, 1917).

Per comprendere la crisi politica innescata dal controllo del Piano Nazionale di Rinascita e Resilienza (Pnrr) non bisogna sottovalutare l’acquolina in bocca delle “grandi opere”. Il bestiario che l’ha innescata declina la questione idrogeologica solo e sempre in quest’ottica. Il ballo della resilienza sarà un valzer di grandi opere? In tal caso, andrebbe usato un sostantivo più appropriato: Piano Nazionale di Rinascita e “Resistenza”.

Uno dei fattori chiave, il consumo di suolo, è del tutto messo da parte. Molti altri, dall’urbanistica al paesaggio, sono vaghe indicazioni. In tal modo, il paradigma della mitigazione del rischio idrogeologico saranno le grandi opere, soprattutto se il piatto forte verrà condito con il “modello Genova”. Alle piccole opere, le operette care ai sindaci di provincia, verrà lasciata qualche briciola. Magari riesumando il modello del Collegato Ambientale alla Finanziaria del 2002: una rugiada di goccioline, mille lacrime sparse sul territorio per soddisfare questa o quella esigenza locale. Sia ben chiaro: senza alcuna pianificazione di bacino, giacché i bacini idrografici non rispettano spesso le frontiere regionali, tanto meno quelle comunali.

Servono davvero interventi massicci? Servono davvero “arginelli, muretti, pavimentazioni, ripristini, perfino tombinature? Pezze a colori quasi mai finalizzate a partorire il momento di gloria dei sindaci fortunati di questo o quel Comune”? In alcuni casi, importanti opere idrauliche sono indispensabili. Se lo scolmatore genovese del torrente Bisagno fosse stato realizzato quando presentai il Piano di Bacino negli anni ’90, si sarebbero evitati enormi danni e molti lutti. Ora ne stanno iniziando la costruzione, che – vent’anni fa – sarebbe costata poco più del doppio rispetto al cassone bluastro del Padiglione Nouvel. Un orrore edilizio che incombe sullo specchio d’acqua della Fiera del Mare di Genova, sacrificando l’incantevole paesaggio che si può ammirare dalla Circonvallazione a Mare.

Il canale sotterraneo progettato da Metropolitana Milanese per difendere Milano dalle ricorrenti alluvioni del Seveso avrebbe potuto anche difendere la Milano ipogea dall’innalzamento del livello della falda freatica, risparmiando i costi dei pozzi depressione falda, un po’ patetici e ingenti opere di impermeabilizzazione postuma, tuttora incompiute. Il progetto era stato auto-finanziato dall’amministrazione Albertini, ma quella successiva decise di dirottare quei soldi altrove.

La galleria costava la metà di un chilometro della costruenda Linea 4 della metropolitana di Milano (circa 2 miliardi per 15 chilometri). Se c’era una soluzione un po’ più seria dello scavo di profonde vasche di laminazione, oltre tutto di efficacia idrologica assai modesta, tutti hanno convenuto di dimenticarla. Tanto a destra quanto a sinistra.

I soldi non sono inutili, anzi servono. Così come le infrastrutture idrauliche. Ma i soldi non vanno sprecati. E, da soli, non bastano. Il rischio alluvionale dipende da tre fattori: la pericolosità, più o meno naturale, l’esposizione dei beni e dei patrimoni al rischio, e la vulnerabilità del territorio. L’esperienza insegna che bisogna agire contemporaneamente su questi tre fattori, tutti altrettanto importanti.

Le politiche sulla questione idrogeologica hanno ignorato finora questa evidenza, privilegiando le opere di ingegneria finalizzate a diminuire la pericolosità. E, per capire queste politiche bisogna seguire il profumo dei soldi, giacché oltre che la soluzione più facile, questa scelta mette in moto risorse ben visibili e negoziabili. Per non citare le pieghe corruttive, meglio praticabili con la politica di riduzione della pericolosità rispetto alle altre opzioni.

Il progetto più consapevole che ho seguito non è stato la costruzione di una diga, un argine, una cassa di espansione. Ma la demolizione di un grande edificio residenziale e altre strutture in fregio a un torrente ligure. Uno dei luoghi della Terra dove infrastrutture e urbanizzazione hanno lasciato un segno profondissimo per densità, intensità, impatto sul paesaggio.

La foce del torrente Quiliano è asservita a tre ponti – l’uno stradale, l’altro ferroviario, il terzo in pietra e mattoni, retrocesso a pedonale ma sedicente romano. Nel suo letto transitavano due grandi oleodotti, scaricava le acque una centrale termica da quasi 1.000 megawatt, e giaceva un intrico di infrastrutture di servizio, dalle acque potabili ai reflui da depurare e i relativi scarichi, senza contare le altre condutture: gas, elettricità, telefonia. Tutto venne reso possibile dall’abnegazione di un collega locale ormai scomparso, l’ingegnere Giovanni Ciarlo, allora presidente del Vado Football Club 1913: la prima squadra a vincere la Coppa Italia, trofeo vinto nel 1922. E dall’intelligenza politica di un valido amministratore che da tempo aveva gettato la spugna per rientrare garbatamente nella società civile, Carlo Giacobbe, vittima della prima ondata della pandemia.

Con Giovanni e Carlo si riuscì a convertire un agglomerato invadente e indecoroso – capace di provocare parecchie alluvioni nel ‘900 – in un piccolo parco fluviale, trasformando un paesaggio imbarazzante in una piacevole oasi alla foce del torrente. E si scoprì che il ponte sedicente romano era stato ricostruito con i materiali residui (risparmiati dall’alluvione che lo aveva distrutto) almeno tre volte nell’ultimo millennio, come venne testimoniato da una brava archeologa, assistente ai lavori.

Una nuova visione della questione idrogeologica richiede due azioni innovative: una effettiva riduzione del consumo di suolo e un serio programma di delocalizzazione. La delocalizzazione degli elementi a rischio è l’unica soluzione efficace laddove non sia fattibile, né economico e neppure ragionevole difendere questi elementi, perché indifendibili sia con misure strutturali, sia con azioni non strutturali. Tutto il resto è una banale operazione di trasferimento ai posteri del danno; e della beffa.

Se nel Piano di Resilienza non cambieremo registro rispetto al passato, trasferiremo alle generazioni future non soltanto il debito finanziario, ma anche il debito ambientale di infrastrutture sbagliate, inutili o addirittura nocive.

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