“L’attentato ai danni dei carabinieri avvenuto nella notte tra il 1 e 2 dicembre 1993 e il duplice omicidio del 18 gennaio 1994 sono da considerarsi un antecedente necessario del più eclatante attentato (la fallita strage dell’Olimpico, ndr) che si sarebbe dovuto compiere, nelle intenzioni del Graviano, a distanza di pochi giorni, in un crescendo che si colloca all’interno di una strategia omogenea e unitaria”. È quanto scrive la Corte d’Assise di Reggio Calabria nelle motivazioni della sentenza del processo “’Ndrangheta stragista” che a fine luglio si è concluso con la condanna all’ergastolo per il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e per Rocco Santo Filippone, ritenuto dalla Dda espressione della cosca Piromalli di Gioia Tauro. Per i giudici, però, le “responsabilità degli imputati costituiscono soltanto un primo approdo”: dietro agli attentati è “assai probabile” che oltre alla ‘Ndrangheta e a Cosa nostra vi fossero “dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensione’ volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre”. La presidente Ornella Pastore, il giudice a latere Vincenza Bellini e i giudici popolari hanno sposato in pieno l’impianto accusatorio del procuratore Giovanni Bombardieri e dell’aggiunto Giuseppe Lombardo. Quest’ultimo è riuscito, “a distanza di circa venticinque anni dai fatti, a fornire una nuova e diversa lettura delle ragioni” che hanno portato alla morte dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, trucidati sulla Salerno-Reggio Calabria all’altezza dello svincolo di Scilla.

“Cinico piano di controllo del potere politico” – Secondo la Corte d’Assise, Graviano e Filippone sono i mandanti di quell’agguato e degli altri due attentati consumati a Reggio Calabria ai danni dei carabinieri. Stragi che rientravano in una “comune strategia eversivo-terrorista” e “hanno costituito uno dei momenti più significativi di un cinico piano di controllo del potere politico (fortunatamente fallito) nel quale sono confluite tendenze eversive anche di segno diverso (servizi segreti deviati) per effetto anche della ‘contaminazione’ o ‘evoluzione’ originata dall’inserimento della mafia siciliana e calabrese all’interno della massoneria”. “Il culmine di tale attacco allo Stato – si legge nella sentenza di primo grado – si sarebbe dovuto raggiungere il 23 gennaio 1994 con l’attentato allo Stadio Olimpico di Roma che, se portato a termine, avrebbe certamente determinato l’uccisione di decine e decine di carabinieri, piegando in maniera definitiva lo Stato, già colpito dalle stragi avvenute negli anni precedenti”. Il tutto si è incastrato “in un momento in cui le organizzazioni erano alla ricerca di nuovi e più affidabili referenti politici, disposti a scendere a patti con la mafia, che furono individuati nel neopartito Forza Italia di Silvio Berlusconi in cui erano confluiti i movimenti separatisti nati in quegli anni come risposta alle spinte autonomistiche in Sicilia e Calabria”.

La corte d’Assise: “Ci sono mandanti politici” – Nonostante il procuratore Lombardo, “con un notevole sforzo investigativo, protrattosi anche nel corso dell’istruttoria dibattimentale”, sia riuscito a fare luce su una delle pagine più buie del nostro Paese, ci sono anche altri responsabili di quella strategia stragista: “Le conclusioni cui è pervenuta questa Corte in ordine alla responsabilità degli imputati – scrive infatti la presidente Pastore – costituiscono soltanto un primo approdo, dal momento che la complessa istruttoria dibattimentale, ivi comprese le dichiarazioni di Giuseppe Graviano, lascia intravedere il coinvolgimento nelle vicende esaminate di ulteriori soggetti che hanno concorso nella ideazione e deliberazione degli eventi in esame”.

E ancora: “Non può affatto escludersi, anzi appare piuttosto assai probabile, che dietro tali avvenimenti vi fossero dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensione’ volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre, temuto anche dalle organizzazioni criminali, che erano riuscite con i precedenti referenti politici a godere di benefici e agevolazioni. Si può, quindi, affermare che in tale circostanza si era venuta a creare una sorta di convergenza di interessi tra vari settori che hanno sostenuto ideologicamente la strategia stragista di Cosa Nostra”.

I voti di Cosa nostra: dalla Dc a Forza Italia – Nelle 1078 pagine di sentenza, la Corte d’Assise ricostruisce le dinamiche che hanno portato Cosa Nostra ad appoggiare la Democrazia Cristiana fino a quando erano andate in fumo, nel gennaio 1992, le speranze di ottenere un annullamento della sentenza del maxi processo. Dopo l’omicidio Lima, i voti della mafia siciliana “erano stati dirottati sul ‘Partito Socialista’ e anche sul partito Radicale”. Con la crisi dei partiti tradizionali, però, “Cosa Nostra aveva deciso di uniformarsi a ciò che stava accadendo nel resto del sud Italia creando movimenti autonomisti”. Un progetto questo che, presto, non era apparso più conveniente ed “era stato quindi accantonato in favore dell’appoggio al nascente partito politico Forza Italia”. Un cambio di rotta condiviso con la ‘ndrangheta. Lo dimostra ciò che avvenne il 24 febbraio 1994 quando il boss “Giuseppe Piromalli, durante il processo celebrato a Palmi per l’estorsione per i ripetitori Fininvest, prendeva la parola in aula e dalla cella gridava: “Voteremo Berlusconi, voteremo Berlusconi”.

Graviano al bar Doney con Dell’Utri – Nelle motivazioni della sentenza, inoltre, ha trovato spazio il famoso incontro tra il boss Giuseppe Graviano e Marcello Dell’Utri avvenuto in via Veneto a Roma nel gennaio 1994 e “finalizzato a discutere del nuovo partito politico che stava per nascere, Forza Italia”. Nel corso dell’istruttoria dibattimentale è stato sentito il pentito Gaspare Spatuzza a cui il boss di Brancaccio aveva mostrato “la sua felicità per il fatto di essere riuscito ad ottenere ‘tutto quello che cercava’, con ciò facendo riferimento a Berlusconi ‘quello del Canale 5’ e al ‘compaesano’ Dell’Utri”. Al collaboratore di giustizia, infatti, aveva detto di avere “il paese nelle mani” e che bisognava dare il “colpo di grazia” con l’attentato ai carabinieri.

Durante il processo, la Procura ha dimostrato che negli stessi giorni dell’incontro di via Veneto, a poche centinaia di metri all’Hotel Majestic Dell’Utri era impegnato in una serie d’incontri preparatori alla discesa in campo di Berlusconi. Sul punto, la Corte d’Assise non ha dubbi: “Può ragionevolmente ritenersi che il Graviano il 21 gennaio 1994, prima di incontrare lo Spatuzza per discutere degli ultimi dettagli riguardanti l’attentato allo stadio Olimpico, avesse avuto modo di colloquiare con il Dell’Utri che nello stesso giorno si trovava a Roma poco distante dal bar Doney”.

Il boss di Brancaccio rompe il silenzio – A differenza del processo di Firenze quando il boss siciliano si è avvalso della facoltà di non rispondere nel momento in cui gli erano state poste domande su Marcello Dell’Utri, dopo 26 anni in riva allo Stretto Graviano ha rotto il silenzio. Nelle udienze dedicate al suo interrogatorio, ha reso numerose dichiarazioni spontanee e ha risposto pure alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. Per i giudici, “ha inteso a suo modo sciogliere tale riserva riferendo diffusamente, in ordine ai suoi rapporti con Silvio Berlusconi, descrivendone le origini, che ha indicato in ragioni di carattere economico. Ha inoltre spiegato le ragioni del risentimento nei confronti dell’esponente politico che è arrivato persino ad indicare come il mandante del suo arresto”.

Sarà la Procura, a cui la Corte d’Assise ha trasmesso le “copiose dichiarazioni rese dal Graviano”, a fare luce sulle accuse mosse dal boss e a verificare se siano calunnie o verità. Tuttavia, per i magistrati, si tratta di “dichiarazioni di estremo rilievo che, unitamente al contenuto delle conversazioni intercettate presso il carcere di Ascoli Piceno intercorse con l’Adinolfi, confermano l’esistenza di aspettative da parte del Graviano nei confronti del nuovo governo, in quanto a seguito dell’avvicendamento politico venutosi a creare, egli sperava che potessero intervenire modifiche legislative riguardanti il regime detentivo ed altro”. Aspettative rimaste tali e questo “ha determinato nel Graviano rabbia e risentimento, essendo egli peraltro persuaso di essere stato tratto in arresto deliberamente per evitare la formalizzazione del suo accordo economico con Berlusconi”.

Il presunto ruolo strategico che il leader di Forza Italia avrebbe avuto nell’arresto di Graviano riguarderebbe, infatti, una serie di investimenti fatti dal nonno del boss a Milano negli anni ’60 e ’70. Il capocosca di Brancaccio riporta la vicenda pure nel memoriale consegnato alla Corte d’Assise pochi giorni prima di essere condannato all’ergastolo: “L’imputato ribadisce che dall’ascolto delle conversazioni è possibile comprendere la vera natura del rapporto che lo lega al predetto (Berlusconi, ndr), il quale, grazie alla manovre messe in atto da ‘qualcuno’ o più di ‘qualcuno’, avrebbe guadagnato ‘alla fine degli anni 60, la cifra di ben 20 miliardi di lire, che si dovevano tradurre nel 20% degli investimenti fatti negli anni dallo stesso’”. I “rapporti di natura economica” con Berlusconi, secondo i giudici, “risultano totalmente indimostrati essendo sul punto le dichiarazioni del Graviano prive di qualunque riscontro”.

La strage di Via d’Amelio, l’agenda di Borsellino – Come è stato per le udienze in cui ha reso dichiarazioni, anche con il suo memoriale Giuseppe Graviano ha dimostrato di essere un geloso custode del suo “bagaglio di conoscenze”: dall’omicidio del poliziotto Agostino (in cui “sarebbero coinvolti soggetti che si sono resi responsabili dell’omicidio di suo padre”) alla strage di Via D’Amelio (“è stato imbastito – ha detto – un disegno criminoso per tutelare gli interessi di qualcuno o più di qualcuno”), fino alla sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino per la quale il boss ha fatto chiaramente intendere di sapere chi l’ha presa dal luogo della strage.

Se non è un invito a collaborare con la giustizia, lo sembra molto quello della Corte d’Assise di Reggio Calabria: “Deve certamente ritenersi – scrive, infatti, la presidente Ornella Pastore – che l’imputato potrebbe fornire un contributo rilevante per fare piena luce, oltre che sui fatti per cui è processo, anche su altri gravi episodi criminosi che hanno insanguinato il nostro Paese all’inizio degli anni ’90, tra cui la strage di via D’Amelio, a meno che, a distanza di quasi 27 anni dal suo arresto, non continui ancora a sperare che possa accadere qualche ‘bella cosa’”. “In ogni caso – si legge sempre nella sentenza – le circostanze riferite dal Graviano meritano certamente di essere valutate ed approfondite nelle sedi competenti nella speranza che possano giovare finalmente a fare completa chiarezza su avvenimenti che hanno segnato e continuano tuttora a segnare la storia dell’Italia”.

Strategia stragista, le indagini della Dda continuano – Quanto emerso dal processo è certamente un tassello importante sui tanti misteri che hanno insanguinato l’Italia nei primi anni novanta con una strategia stragista cercata e voluta da un sistema che il procuratore aggiunto Lombardo ha più volte definito “comitato d’affari che comprende al suo interno ‘Ndrangheta, Mafia siciliana, politica collusa, pezzi di istituzioni e pezzi di servizi segreti”. Da qui le considerazioni della Corte D’Assise che, analizzando quanto emerso nell’istruttoria dibattimentale, ha concluso: “Ciò che si ricava ancora è che dietro tutto ciò non vi sono state soltanto le organizzazioni criminali, ma anche tutta una serie di soggetti provenienti da differenti contesti (politici, massonici, servizi segreti), che hanno agito al fine di destabilizzare lo Stato per ottenere anch’essi vantaggi di vario genere, approfittando anche di un momento di crisi dei partiti tradizionali. Anche con riferimento alla identificazione di tali soggetti, compito certamente non agevole in considerazione altresì del lungo lasso temporale decorso rispetto ai fatti in esame, si impone quindi la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica”.

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