Riduzione delle emissioni nette dell’Unione europea dall’attuale 40% al 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. E’ l’accordo trovato giovedì notte dal Consiglio europeo, alla vigilia del quinto anniversario dell’Accordo di Parigi. Sarebbe potuta diventare una svolta storica, ma così non è stato: lo scorso ottobre il Parlamento europeo si era espresso per un obiettivo più ambizioso, un taglio del 60%. D’altronde lo stesso accordo di Parigi non ha segnato un vero cambiamento epocale. Come mostrano i risultati (scarsi) che si potranno rivendicare sabato, quando prenderà il via il Climate Ambition summit virtuale organizzato da Nazioni Unite, Regno Unito e Francia, in partnership con Italia e Cile. Obiettivo, fare un bilancio degli ultimi cinque anni sul fronte delle azioni intraprese dai Paesi contro il climate change e fissare nuovi obiettivi per spianare la strada alla Cop26 di Glasgow in programma nel novembre 2021.

Per Greenpeace, quello raggiunto dai capi di Stato e di governo europei è “un accordo poco ambizioso, che evidenzia la riluttanza a seguire la scienza e ad affrontare le vere cause alle origini dell’emergenza climatica in corso” e dimostra come “gran parte della politica” abbia ancora paura “di affrontare i grandi inquinatori”. L’intesa delude anche il Wwf, che ricorda come quel 55% sia “in contraddizione con le indicazioni della comunità scientifica, che ha dimostrato che sarebbe necessaria una riduzione effettiva delle emissioni del 65% entro il 2030 per evitare i maggiori rischi del riscaldamento globale”. E aggiunge: “I ministri dell’Ambiente che si riuniranno la prossima settimana (il 17 dicembre si fisseranno i contributi nazionali all’obiettivo complessivo, ndr) hanno la possibilità di salvare parte della reputazione dell’Ue in materia di clima, garantendo che la legge sul clima dell’Ue includa una revisione quinquennale dell’obiettivo climatico, allinei le altre politiche agli obiettivi e istituisca un organo consultivo indipendente di esperti per esaminare i piani climatici dell’Ue”.

Luca Iacoboni, responsabile della campagna clima di Greenpeace Italia: cosa rappresenta l’accordo trovato in Consiglio?
Non può certo essere definito una svolta storica, né una buona notizia. Quello che ci si è posti è un obiettivo insufficiente per fronteggiare la crisi climatica, per due ragioni fondamentali. In primis perché è troppo poco ambizioso rispetto agli Accordi di Parigi, sia quelli che prevedono di fermare l’aumento del riscaldamento globale sotto la soglia di 1,5 gradi, sia quelli che arrivano ai 2 gradi. In secondo luogo, il Consiglio parla di ‘emissioni nette’. Questo significa che la riduzione del 55% si può ottenere anche affidandosi (così come aveva proposto di fare anche la Commissione Ue, ndr) a pozzi di assorbimento del carbonio, i cosiddetti ‘carbon sink’, come ad esempio le foreste, per compensare le emissioni. Questo riduce a un 50,5% il taglio reale per settori inquinanti come l’energia, i trasporti e l’agricoltura industriale. Una differenza davvero minima, considerando che l’Ue già oggi (attraverso una serie di modifiche degli obiettivi) punta al 46% nel 2030”.

La Polonia ha preteso l’impegno dei leader affinché in primavera si diano orientamenti addizionali alla Commissione sulle proposte di riforma dei due pilastri delle politiche climatiche Ue, il mercato del carbonio e il regolamento che copre le emissioni di agricoltura, trasporti ed edifici. Ma è stata Varsavia a puntare i piedi perché il gas fosse menzionato come ‘tecnologia di transizione’ verso la neutralità climatica?
È vero che alcuni Paesi, come la Polonia o la Repubblica Ceca, hanno più blocchi dal punto di vista della transizione energetica, ma non è vero che le pressioni sono arrivate solo da questi Paesi. Anche Italia, Francia e Germania, per esempio, non hanno fatto più di tanto per alzare l’asticella. E questo perché, evidentemente, ci sono interessi e progetti in cantiere che hanno al centro gli idrocarburi e, in particolare, il gas. Non è un mistero che tanti Paesi abbiano supportato direttamente o indirettamente la richiesta di considerare il gas come tecnologia di transizione.

Anche l’Italia pensa al gas come lo strumento che guiderà verso la decarbonizzazione. Ma quanto durerà questa ‘transizione’?
A questa domanda nessuno, finora, ha dato una risposta. Per farsi un’idea, però, basta dare un’occhiata ai piani di Eni, che prevede l’utilizzo del gas anche dopo il 2050.

Qual è il rischio?
Il gas non può essere considerato energia pulita. Dobbiamo essere chiari nel dire che, se le risorse del Recovery Fund andranno a progetti, come quello di Eni a Ravenna sul CCS (Carbon Capture and Storage o Sequestration), tecnologia attraverso la quale l’azienda vuole utilizzare i propri giacimenti di gas al largo della costa per immettere centinaia di tonnellate di CO2 derivante dai processi industriali ad altissima pressione, allora siamo lontani anni luce da un percorso di decarbonizzazione. Investimenti nel gas di questo tipo potrebbero rivelarsi catastrofici per il clima e porteranno a miliardi di euro di attività economicamente non redditizie. Senza parlare dei nodi ancora non sciolti che riguardano, rispetto al Recovery Fund, le modalità di distribuzione che vorremmo fossero attuate in modo trasparente e con il coinvolgimento, tra gli altri, della società civile.

Il prossimo passo?
Il Parlamento ha già ribadito la sua posizione, decisamente più ambiziosa. Ora di va verso il trilogo e vedremo se ci sarà spazio per cambi di rotta o se passerà la linea del Consiglio Ue che, solitamente, è molto importante. Entro la fine dell’anno, poi, come prevede l’Accordo di Parigi, l’Ue deve presentare all’Onu il suo Piano climatico aggiornato.

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