Sull’esito del voto di domani negli Usa, pesano incertezze più diffuse di quanto non emerga dai dati dei sondaggi. A leggerli, alla vigilia dell’Election Day, uno non dovrebbe avere dubbi: “Vince Biden, facile e largo”, nonostante le peculiarità dei meccanismi elettorali negli Stati Uniti. A parte la prudenza che – ci insegnano da piccoli – “non è mai troppa”, due fattori sconsigliano, però, previsioni spericolate: il ‘fattore 2016’ – Trump era sfavorito, meno nettamente di oggi, e vinse, battendo una rivale sulla carta più temibile, anche se più divisiva, di Joe Biden -; e quello che noi italiani chiameremmo ‘fattore Dc’, alias ‘fattore Berlusconi’.

Nella Prima Repubblica, era difficile trovare qualcuno che dichiarasse di votare per la Dc, così come nella Seconda Repubblica per Berlusconi. Poi succedeva che la Dc era sempre il primo partito (e che Berlusconi vinceva spesso). Gli americani non ne sono consci, o non la chiamerebbero così, ma sono vittime della stessa sindrome: molti non ammettono volentieri di votare per Trump, ma lo votano; o, almeno, lo votarono nel 2016.

E’ il suo popolo, fatto di uomini bianchi, al di là dei 50 e mediamente poco istruiti; rednecks e sotto sotto suprematisti; fondamentalisti religiosi, ovviamente cristiani; sotto-proletari prigionieri e vittime del sogno americano; anti-‘big government’ e resti di quello che fu il Tea Party. Un popolo che lo voterà di nuovo, a dispetto di promesse mancate e continue falsità, nonostante la pandemia e il tracollo dell’economia. Un popolo che è minoranza nell’Unione, ma che nel 2016 fece maggioranza negli Stati sufficienti a garantire al magnate inopinatamente candidato la Casa Bianca.

Perché questo non succeda di nuovo, mi scrive il mio amico David Heat da Georgetown, Texas, “bisogna che vadano a votare gli agricoltori dello Iowa che sono scontenti e si sentono traditi, sostenitori di Bernie Sanders maldisposti e rancorosi, che non hanno proprio voglia di votare per ‘la solita solfa’, neri che non sono mai andati alle urne nel Profondo Sud, immigrati in Texas e in Florida, giovani apatici e apolitici in tutta l’Unione, mamme dei sobborghi arrabbiate e offese e che tornino all’ovile democratico, da cui fuoriuscirono nel 2016, i lavoratori del manifatturiero del MidWest. Solo così – conclude David, che è un artista e che insegna inglese agli immigrati – solo così, forse, potremo sconfiggere il malfattore”.

Per David, insomma, è soprattutto questione di partecipazione al voto. Le premesse, in tal senso, sono buone: i voti già espressi, sono quasi 100 milioni, il 50% degli elettori registrati in alcuni Stati, quasi i tre quarti dei votanti del 2016 – 137 milioni. Ma il rischio è che, nell’onda del’affluenza alle urne, non vi sia solo la spinta a ‘vote him away’, come ripete il ritornello di un adattamento della colonna sonora del Re Leone che rimbalza sui social, ma ci sia pure, “nascosto nell’ombra”, un silenzioso voto pro-Trump.

Trump e i suoi fan non sono l’America che verrà. Al contrario, sono – nota Mattia Diletti, docente e ricercatore al Coris della Sapienza – “un freno all’America che verrà”: l’estremo baluardo, destinato anagraficamente a cadere, a un’America in cui i bianchi non saranno più la maggioranza, ma solo “la più grande delle minoranze”, un’America sempre più diversa e sempre più integrata. Joe Biden non è il leader della nuova America, non ne ha né l’età né il carisma; ma, con il suo approccio non divisivo e con il suo costante richiamo ai valori dell’Unione, può favorire una transizione che non passi attraverso una ‘guerra civile – neppure troppo – fredda’, come minacciano di essere altri quattro anni di Trump alla Casa Bianca.

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