Dopo che l’esattore autunno ha già riscosso la prima rata della tassa idrogeologica che ogni anno parecchi italiani sono costretti a pagare in questa stagione, l’Italia sta vivendo alcuni giorni di riposo idro-meteorologico. Senza l’urgenza della cronaca, perché non riflettere a mente fredda sulle strategie con cui il paese si può confrontare con il proprio destino di “sfasciume pendulo sul mare”? Un’amara definizione di Giustino Fortunato (La questione meridionale e la riforma tributaria, 1904) che ripresero Piero Calamandrei, Manlio Rossi-Doria, Giorgio Bocca. E molti altri ancora, fino ai giorni nostri: nonostante 150 anni e più di promesse non mantenute né mantenibili, opere utili e meno utili e molta ammuina, questa definizione è tuttora azzeccata.

L’occasione del Recovery fund – un ossimoro europeo scritto nella lingua che nessuna nazione dell’Unione rivendica come nativa – è delicata. È una visione angelica che travaglia le notti insonni dei governanti in procinto di deciderne l’impiego; ma è anche un miraggio che lucida gli occhi dei grandi e piccoli “furbetti” da emergenza.

Poiché il “fondo” è un debito per le prossime generazioni, un impiego scriteriato in materia di difesa del suolo potrebbe aggiungere debiti a debito: il lascito di nuovi danni e nuovi lutti per via di opere insufficienti, ridondanti, inutili, dannose. Un debito per abitare la tua casa della vita è un debito che ti frutta se la casa è solida, accogliente, ospitale, ben fatta. Se la casa è di carta, costruita in una zona inadatta e soggetta a rapido degrado, quel debito è un cappio al collo.

Da sempre, il pensiero sulla difesa del suolo va al “sodo”: fondi, stanziamenti, soldi, quasi sempre per lamentarne la insufficienza o la mancanza. “In realtà, più che un pensiero debole, il pensiero è stato assente. È subentrato solo il nulla, il disinteresse. Anzi, è rimasto solamente un interesse, preciso e assillante, l’ossessione di chi non sa che cosa dire: i soldi. Anzi, i soldi per fare le opere. Un pretesto famoso: tutto è questione dei soldi, colpa dei soldi, storia di soldi”. È ciò che scrissi tre anni fa in Bombe d’Acqua. Alluvioni d’Italia dall’unità al terzo millennio. Da allora, poco è cambiato.

In chiusura del libro, richiamavo una decina di punti, utili a discutere politiche efficaci ed efficienti. Come prime due necessità indicavo la consapevolezza del cambiamento climatico e l’uso dell’intelligenza, artificiale ma soprattutto naturale, già richiamate in due post nei mesi scorsi, qui correlati. La terza è la buona gestione dei bacini idrografici. La sola gestione del territorio rurale, garantita un tempo dai consorzi irrigui, non è più sufficiente. Spesso le inondazioni sono talmente severe che i sistemi capillari e diffusi di drenaggio, raccolta, distribuzione e laminazione delle acque superficiali sono subito saturi.

Queste strutture hanno comunque un ruolo chiave nel mitigare l’impatto delle piene di piccola e media severità e non vanno di certo abbandonate a se stesse bensì manutenute con cura. Inoltre, spazi verdi, tetti verdi, giardini della pioggia, boschi, superfici permeabili e lo stoccaggio superficiale del ruscellamento possono svolgere un ruolo molto positivo, ma devono esser posizionati in modo strategico per essere efficaci nel mitigare le inondazioni.

Vanno anche ricercate soluzioni rurali intelligenti. Per tutto il Novecento la bonifica integrale che, durante il fascismo, ebbe la sua maggior popolarità, ha teso a drenare il più rapidamente possibile le acque dai terreni agrari, convogliandole nei corpi idrici ricettori. E a proteggere questi terreni dalle inondazioni. Lo stoccaggio delle acque in zone agricole a monte dei centri abitati e delle infrastrutture sensibili offre però una opportunità non trascurabile per diminuire la pericolosità idraulica nelle zone urbane.

Alcuni paesi, colpiti con regolarità dalle piene monsoniche, sacrificano terreni agricoli anche pregiati per varie settimane, al fine di frenare i deflussi. Si tratta di una soluzione certamente non universale, giacché l’Italia presenta una geografia fisica e insediativa del tutto peculiare, ma potrebbe essere impiegata con successo in casi particolari, inondando deliberatamente aree agricole predisposte per laminare le onde di piena. La collaborazione dei contadini e dei proprietari terrieri diventa quindi un fattore chiave. E per questo servizio vanno comunque risarciti.

Nel fronteggiare le alluvioni, qualche volta bisogna fare scelte dolorose, ma la politica spesso sorvola su queste scelte. Accade quando il sistema idrografico non è comunque in grado di smaltire le massime piene a causa di una secolare, densa urbanizzazione. In qualche caso, si può anche scegliere dove collocare il fusibile del circuito quando la corrente lo satura, provocando un cortocircuito.

Per questo si preferisce talvolta sacrificare all’allagamento una zona periferica di poco pregio immobiliare e commerciale, pur di salvaguardare zone centrali di alto prestigio, a loro volta più suscettibili di quella periferia. Bastano pochi accorgimenti costruttivi nel dimensionamento delle opere idrauliche. Qualche volta basta dosare le manutenzioni. Le costruzioni idrauliche sono comunque soggette al controllo progettuale e gestionale da parte dell’uomo.

Non sempre la scelta viene condotta in modo democratico, rendendo la popolazione consapevole: i presupposti della buona gestione sono la consapevolezza e la condivisione. E, quando avviene il disastro, bisogna smettere di aggrapparsi al destino cinico e baro o al clima che cambia.

Nei prossimi post di questo blog, richiamerò e metterò in discussione gli altri sei punti.

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