La pandemia ha posto in secondo piano le catastrofi naturali che continuano a presentarsi anche senza l’attenzione mediatica di prima. Le grandi alluvioni continuano a colpire duramente territori densamente popolati, soprattutto nei paesi meno sviluppati e, in alcuni casi, messi a dura prova dalla stessa pandemia. Non solo il danno diretto punisce la gente povera, ma gli effetti indiretti – come l’interruzione dei servizi idrici, essenziali per la prevenzione dal contagio pandemico – ne mettono a dura prova la sopravvivenza a medio termine.

In ordine di tempo, l’ultimo disastro è quello del Bangladesh, dove le agenzie governative e umanitarie riferiscono di 3,3 milioni di persone colpite dalle inondazioni iniziate a giugno. Le inondazioni hanno sommerso oltre 34mila chilometri quadrati, il 24 percento del paese, provocando centinaia di vittime, in larga maggioranza bambini. Circa 56mila persone sono state sfollate in un migliaio di rifugi antiallagamento. La comunicazione stradale in alcune aree è stata danneggiata, isolando diverse province. Migliaia di latrine e pozzi sono stati danneggiati o distrutti e sette province sono senza acqua potabile. Quasi duemila scuole sono state danneggiate, lasciando 800mila bambini senza accesso all’istruzione.

In Italia, allagamenti estivi se non alluvioni vere e proprie hanno colpito il torinese prima, poi Palermo; infine, l’immancabile milanese, ostaggio della riduzione in schiavitù di Seveso e Lambro, messa in atto nei secoli e perpetrata tutt’oggi. E ancora il Messinese qualche giorno fa. L’automobile si è rivelata ancora una volta l’insidia maggiore. La vulnerabilità estrema del tessuto urbano è diventata evidente a partire alla fine del secolo scorso, ma la nostra memoria è corta.

Se di alcune grandi alluvioni – Firenze e Venezia del 1966 su tutte – serbiamo una qualche memoria, “altre volte, si è preferito lasciar sedimentare tutto nell’oblio, anche perché la memoria di questi eventi è assai labile e incline a scivolare nel grande sonno. Per esempio, mi ha colpito che una ricerca su Google digitando “Giampilieri” faccia emergere oggi, quali prime scelte, le notizie più varie sulla statua della Madonna che lacrima gocce di olio profumato. E non il disastro tremendo del 2009, che fece 31 vittime e 6 dispersi”.

È ciò che scrissi anni fa nel saggio intitolato Bombe d’Acqua. Alluvioni d’Italia dall’unità al terzo millennio. In chiusura, richiamavo una decina di punti da prendere in considerazione per sviluppare politiche efficaci ed efficienti. Se indicavo come prima necessità è la consapevolezza del cambiamento climatico, la seconda è adoperare l’intelligenza.

Fare previsioni più intelligenti può condurre a grandi benefici. In tutto il mondo si sta lavorando a città più intelligenti. Con la pandemia, lo smart working è diventato patrimonio comune. Ma, da tempo, le città diventano smart in tutto, dai flussi di traffico e telefonia al consumo di energia. Tutto ciò avviene grazie a un impiego massiccio di big data, raccolti capillarmente e analizzati in tempo reale.

In caso di alluvione, le reti dei sensori, dai radar meteo alle stazioni disseminate lungo la rete idrografica possono aiutare a predire sempre meglio le condizioni meteorologiche estreme, dando alla comunità più tempo per prepararsi. Se nei grandi fiumi questa strategia ha una lunga storia che annovera successi, presto dimenticati, e insuccessi, come l’inutile ma precauzionale sollevamento del ponte ferroviario di Pontelagoscruro sul Po nell’ottobre del 2000 o, più indietro nel tempo, come la profezia del matematico e astronomo tedesco Johannes Stöffler, professore nella prestigiosa università di Tubinga.

Alla fine del 1523, egli avvertì i contemporanei della prossima, terribile alluvione, paragonabile al diluvio, per il vicino febbraio 1524: la previsione si basava su un calcolo della congiunzione dei pianeti nella costellazione dei Pesci; e nulla accadde. Oggi disponiamo di tecniche meno rozze, basate su sistemi di osservazione di alta qualità ed elevato dettaglio, assieme a mezzi di trasmissione con enormi potenzialità di diffusione capillare delle informazioni in tempo reale.

Anni fa raccontai su questo blog la straordinaria esperienza che feci nel 2014, nel corso di alluvione cittadina che colpì Genova, grazie ai social e all’abnegazione di una televisione locale. Migliorare la predicibilità è quindi un passo altrettanto importante del precedente, perché diminuisce l’incertezza con cui valutiamo non solo se ma anche quando un’alluvione potrà colpire il nostro territorio; nello stesso tempo, aumenta l’orizzonte di tempo per prepararsi a questa eventualità. E l’impiego mirato degli stessi big data che servono alla telefonia o all’energia possono indirizzare meglio la preparazione, come stanno dimostrando parecchi progetti di ricerca applicata.

Nei prossimi post di questo blog, richiamerò e metterò in discussione gli altri otto punti.

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