“Sembra che il generale Haftar stia giocando in tutta questa vicenda”. Lo ha detto il sindaco di Mazara del Vallo, Salvatore Quinci, intervenendo a una manifestazione organizzata da associazioni e sindacati oltre che dai familiari dei 18 pescatori tuttora bloccati in Libia. “Sembra quasi che la stia utilizzando per mettersi al centro dell’attenzione internazionale – ha aggiunto il primo cittadino – e ricavarsi un ruolo che magari in questo momento lo vede in secondo piano rispetto al passato, ma noi non possiamo dare questi alibi”.

La manifestazione si è svolta nella piazza centrale della città a 38 giorni dal sequestro, avvenuto il primo settembre a 38 miglia dalle coste libiche. “Ci dicono che stanno bene, ma vogliamo vederli, vorremmo sentirli, per favore lo chiediamo al Papa, oltre che al Governo: aiutateci”, dicono alcuni dei familiari davanti alle telecamere. L’unico contatto risale ad una telefonata del comandante Pietro Marrone, che assieme agli altri 17 pescatori (otto italiani, sei tunisini, due indonesiani e due senegalesi), è nel carcere di El Kuefia, a 15 km da Bengasi. In questi giorni la Diocesi di Mazara del Vallo ha stanziato un contributo per il pagamento delle spese vive e “anche il Comune in accordo con le famiglie, farà la sua parte”, aggiunge il primo cittadino.

Secondo le informazioni, confermate dalla Farnesina, tutti loro saranno processati dalla Procura militare libica il prossimo 20 ottobre. “Non voglio assolutamente credere a una loro condanna, ci appelliamo ancora una volta al Governo, i vogliono dei fatti concreti, ancora non sappiamo nulla di certo, ci dicono che stanno trattando, ma qua ci sono anche persone che hanno delle patologie”, dice la signora Anna Giacalone, madre di uno dei marittimi dell’Antartide. Tra i 18 pescatori oltre agli equipaggi dei due motopesca, gli uomini di Haftar hanno prelevato anche il comandante del peschereccio ‘Anna Madre’ di Mazara del Vallo e il primo ufficiale del ‘Natalino’ di Pozzallo, che la sera dell’accerchiamento erano riusciti ad invertire la rotta. “Noi ci sentiamo italiani e soffriamo come tutte le altre persone – dice la madre di uno di loro – conosciamo la Libia e abbiamo tanta paura, speriamo di riuscire ad avere delle soluzioni prima del processo“.

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