Bloccati in Libia con un processo all’orizzonte. Dopo 37 giorni, restano sospese le sorti dei 18 pescatori di Mazara del Vallo trattenuti a Bengasi dalle autorità del generale Khalifa Haftar. “Continuiamo a non avere notizie, ci basterebbe una loro fotografia”, dicono a più riprese i familiari dei marittimi. Dalla sera del sequestro dei due pescherecci Antartide e Medinea, sono in collegamento con l’Unità di crisi della Farnesina, che sta monitorando le trattative per il rilascio dei pescatori (otto italiani, sei tunisini, due indonesiani e due senegalesi). Nel pomeriggio l’intero gruppo ha seguito con delusione il question time alla Camera, durante il quale il ministro per i rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà ha ricostruito i punti cardine della vicenda. “Ci hanno confermato che il caso nei giorni scorsi è passato alla competenza della Procura militare – racconta l’armatore Marco Marrone del Medinea -, il processo inizierà il prossimo 20 ottobre e alcuni di noi sono davvero preoccupati di non rivedere più i loro parenti”.

I due pescherecci si trovano ormeggiati nel porto di Bengasi dalla sera del primo settembre, quando tre unità delle autorità militari del generale Haftar, sono intervenuti a 38 miglia dalle coste libiche, in uno specchio d’acqua in cui c’erano nove pescherecci. “Ci stavano controllando da giorni”, racconta uno dei pescatori che si trovava a bordo di una delle imbarcazioni fuggite all’agguato. In effetti il sequestro è stato eseguito a poche ore dalla ripartenza verso l’Italia del Ministro degli Esteri, Luigi di Maio, arrivato in Libia per suggellare l’accordo con il premier libico riconosciuto dall’Onu, Fayez al-Serraj e con il presidente della camera dei rappresentanti di Tobruk, Aguila Saleh.

Per tredici giorni i familiari e gli armatori hanno presidiato il piazzale davanti Montecitorio. “Abbiamo incontrato sia il presidente del consiglio Giuseppe Conte che il ministro Di Maio, ma non abbiamo avuto alcuna notizia, se non delle rassicurazioni – dicono alcuni di loro – Abbiamo fiducia nelle istituzioni, sappiamo che le trattative hanno bisogno di silenzio e tempo, ma almeno fateci parlare con loro, fateceli vedere”. L’unico contatto dopo il sequestro è avvenuto nel corso di una telefonata del comandante del Medinea, Pietro Marrone, ascoltata in viva voce dai familiari, durante una delle proteste al porto di Mazara del Vallo. “Ci accusano che hanno trovato droga a bordo”, si sente nella conversazione pubblicata dal fattoquotidiano.it. “Rispondere a queste accuse mi sembra surreale, mi sembra chiaro che questo è un altro tentativo di alzare l’asticella – replica l’armatore Marco Marrone – comunque a noi questa contestazione non è mai stata confermata dalla Farnesina”.

L’accusa principale in effetti è quella di aver pescato in una zona che i libici ritengono di loro competenza. Una vicenda che si ripete da anni. Dal 2005 la Libia – all’epoca governata da Gheddafi – adotta la convenzione di Montego Bay del 1982, che prevede la possibilità di estendere fino a 200 miglia la propria autonomia all’interno della Zee (Zona economica esclusiva). Dal secondo dopoguerra è lungo l’elenco di pescherecci prima sequestrati e poi restituiti. In una nota del Ministero degli Interni libico del 17 maggio 1980 si legge: “Unità della Marina militare libica, stazionerebbero al largo dell’isola di Malta anche allo scopo di catturare pescherecci italiani i cui equipaggi potrebbero poi servire come ostaggi da scambiare con eventuali libici arrestati nel corso delle operazioni”. Curiosamente, nel corso delle trattative per la liberazione dei 18 marittimi, il generale Haftar ha proposto uno ‘scambio di prigionieri’ con quattro libici condannati a 30 anni in Appello, su cui a breve dovrà esprimersi la Cassazione. Da quella nota del ministero libico sono passati 40 anni.

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