Partiti siamo partiti. Le scuole, molte, hanno riaperto dopo i lunghissimi mesi di chiusura e le ancor più lunghe polemiche che hanno accompagnato l’inaugurazione del nuovo anno scolastico dell’era del coviddi.

Longo lo cammino, ma grande la meta. Tripudio di servizi al telegiornale con arrivo di camionate di banchi, cronisti mascherati che intervistano studenti mascherati sperando di sentirsi dire “gaudio, giubilo et tripudio! le scuole sono aperte!”.

E’ il come siano aperte, che andrebbe scandagliato. L’ampia libertà data alle diverse realtà scolastiche, la famosa o famigerata autonomia, prevede praticamente di tutto. Alcune hanno scelto l’hic et nunc, il ritorno in toto in presenza, ardimentoso, coraggioso e pionieristico, sanza armatura, sanza paura, vade retro Satàn. Abbiamo iniziato da una settimana, siamo ancora aperti, fora i petti, dritte l’armi, alte le insegne, baldanza! Non capisco perché al solo pensiero continuino a venirmi in mente le frasi di Brancaleone, sarà il caldo.

Un’altra opzione è il sempiterno divide et impera, la divisione delle classi, metà in presenza e metà a distanza, con tutti i problemi che questo comporta alle famiglie che lasciano a casa quattordicenni pigiamati che guardano attraverso il pc i loro compagni seduti nei banchi. Sperando che guardino quello.

Poi ci sono quelle scuole che hanno scelto l’omnia mutantur, tutto cambia, specie i giorni, alternando i gruppi. Ebbene sì, c’è anche questo: metà classe va il lunedì e il mercoledì, l’altra metà il martedì e il venerdì. Giovedì gnocchi. Mi immagino grandi post it appiccicati sui frigoriferi.

E poi ci sono scuole dove si è scelta la modalità in presenza, ma mista, con gruppi alterni ma spezzati che si avvicendano seguendo la teoria eliocentrica ma basati sul calendario lunare incrociato con gli anticipi di campionato: una settimana accompagni il figlio a scuola per le otto del lunedì, la settimana dopo, invece, il lunedì entra alle 10 perché le prime due ore le fa a distanza. Le possibilità di confondersi sono elevatissime e superate soltanto dalla possibilità che il figlio vi stia ingannando. “Alzati, Agilulfo, è ora di andare a scuola!”. “No, padre, tranqui, oggi sono in dad, posso dormire ancora un po’”. E invece la scuola c’era eccome e ha pure fornito ai saltatori di professione nuove meravigliose scuse.

Sì, lo so, non è possibile, oggigiorno con il cellulare i genitori controllano tutto, chiedono, s’informano, chiamano scuola. Forse. Tanti. Non tutti. Già mi immagino alunni autoquarantenati, spaparanzati con i fidi sodali della giovinezza, Play e Station, che raccontano ai genitori di come la propria classe debba stare a casa in via cautelare per qualche giorno.

Io credo fermamente che ciascuna scuola stia facendo il meglio possibile, in base alle proprie possibilità. Per funzionare, per rimanere aperta. Ma spero ardentemente che questo meglio possibile sia soprattutto il meglio per i ragazzi. Perché nessun ragazzo merita di restare a casa, nessun ragazzo merita che gli si dedichi un grammo di attenzione in meno di quel che gli spetta e ciascuno ha esigenze proprie, necessità, bisogni. C’è chi ha più bisogno di altri della presenza di un docente accanto, di stare in una comunità. E dividere, spezzare, alternare funziona in emergenza (e funzionerebbe se significasse classi piccole in cui lavorare di più e meglio), ma l’emergenza non può durare per sempre e soprattutto non può diventare una scusa per lasciare sempre indietro qualcuno. Specie se quel qualcuno non ha abbastanza mezzi per correre più forte.

Perché la scuola è uno dei pochi posti rimasti in cui si può, anzi si deve, essere tutti uguali.