di Riccardo Mastrorillo

Troviamo risibili le motivazioni di alcuni sostenitori del “No” al referendum costituzionale, ma ancora di più ci preoccupano le motivazioni del “Sì”; non possiamo confutarle tutte, né tanto meno abbassarci alle supposizioni di bassa politica, che alludono ad effetti politici, a presunte crisi di governo che ne conseguirebbero e magari a fantasiose ipotesi di governi di salute pubblica.

Il tema in discussione è di estrema serietà, senza indulgere in drammatizzazioni o negli eccessi di chi sostiene effetti catastrofici. Il nostro faro sono i principi della democrazia liberale, primo fra tutti l’equilibrio dei poteri. Non siamo contrari in assoluto a rivedere il numero dei componenti del Parlamento, ma riteniamo inaccettabile rompere l’equilibrio di potere tra Governo, Parlamento e Partiti politici.

Dal 2001 ad oggi abbiamo assistito ad una serie di sciagurate riforme costituzionali, le ultime due, per fortuna, bocciate col referendum costituzionale. Proprio le due intervenivano massicciamente sull’equilibrio dei poteri. La prima, quella del 2005, promossa dal centro destra, modificava l’assetto costituzionale da democrazia parlamentare a semi-presidenziale. Da allora ad oggi, nonostante si sia riaffermato che l’Italia è una democrazia parlamentare, continuiamo ad assistere, specie da destra, al noioso ripetersi che questo è “l’ennesimo governo non eletto dal popolo”. Per la nostra Costituzione, nessun governo è eletto dal popolo!

L’inconfessabile fastidio di gran parte della classe politica italiana verso le forme della democrazia parlamentare ha prodotto negli anni continui tentativi di sottomettere, direttamente o indirettamente, il Parlamento al potere esecutivo. Non c’è un numero “giusto” di parlamentari, ma c’è un principio giusto di equilibrio tra i poteri e, laddove quell’equilibrio venga minacciato, qualsiasi donna e uomo che crede nei principi della democrazia liberale deve battersi per difenderlo.

Non ci interessano i caffè risparmiati o la rappresentanza dei territori, quello che ci preme è limitare il potere, qualunque esso sia. Come ci spiega con il suo stile diretto Ernesto Rossi, nel brano che troverete in questo numero e come ci spiega con altrettanta efficacia Luigi Einaudi in un articolo apparso sul Corriere della Sera il 25 settembre 1917:

“Così è infatti: il vantaggio maggiore, forse unico, dei parlamenti non è invero quello di essere l’espressione di una mitica volontà nazionale, ma il luogo in cui, su mezzo migliaio o seicento tribuni popolari e capi clientele, in mezzo ad una folla non di rado immemore dei grandi e permanenti interessi del paese, accade si possano trovare poche decine di uomini indipendenti, dotati della stoffa dell’uomo di Stato o del critico implacabile. Spesso, nei tempi normali, questi cinquanta, non più, uomini indipendenti, sono sopraffatti e ridotti al silenzio dalle clientele onnipotenti, ed i grandi capi feudali hanno l’interesse a renderne l’opera nulla ed impossibile. Ma talvolta, nei tempi di eccitazione patriottica e di pericolo, le clientele sono ridotte al silenzio: i Caillaux sono costretti a tacere e, alla fine, i Malvy debbono andarsene”.

Non sfugge la banale considerazione che questa riforma, unita al consolidato sistema elettorale, in cui gli eletti sono scelti dai leader dei partiti, significa solo agevolare il capetto di turno. Possiamo esser certi che i 50 uomini indipendenti di cui parlava Einaudi saranno sicuramente tra i parlamentari tagliati e non certo tra quelli superstiti.

I ridicoli correttivi richiesti dal Partito democratico sono semmai delle aggravanti pericolose, in gran parte malamente copiate dalla proposta di riforma costituzionale promossa dal centro destra nel 2005 e, fortunosamente, bocciata dal referendum. E sono tutti orientati a rafforzare il governo a discapito del parlamento. Come scrivevamo lo scorso ottobre.

Resta l’ultima notazione, definiamola “di costume”. I Padri Costituenti, nel definire le regole di revisione costituzionale, indicarono la via maestra: il voto favorevole dei due terzi dei componenti, nei due rami del Parlamento. La possibilità di approvare a maggioranza semplice le riforme ha, come contrappeso, l’eventualità di ricorrere al referendum, come in questo caso.

Noi sommessamente raccomandiamo la via maestra: un serio confronto tra le forze politiche per arrivare a riforme condivise, sempre nel rispetto dei principi della democrazia liberale; in tutti gli altri casi, se vogliamo per principio di precauzione, nel dubbio, è meglio bocciare.

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