C’è chi definisce il taglio degli eletti una “minaccia” per la Costituzione italiana, chi parla di un “attentato alla democrazia” del nostro Paese e chi, come il Comitato nazionale per il No, pensa che sia in atto un “disegno di stravolgimento istituzionale” contrario allo spirito dei padri della Repubblica. Sono sempre più accesi i toni di politici, esperti di diritto e giornali contrari al referendum in calendario il 20 e 21 settembre. In gioco c’è una riforma di 4 articoli, approvata a larghissima maggioranza nell’ottobre scorso, che in realtà va a modificare un passaggio della Carta introdotto solo nel 1963. Quando l’Assemblea costituente approvò in via definitiva il testo, infatti, stabilì che i seggi del Parlamento dovessero variare in base al numero dei cittadini. Il progetto prevedeva l’elezione di un deputato ogni 80mila abitanti e di un senatore ogni 200mila. È a inizio anni Sessanta che si decise, con un’apposita legge di rango costituzionale, di fissare in 945 i membri delle due Camere. All’epoca, però, non erano ancora ancora nati i Consigli regionali – i cui membri oggi sono quasi 900 – e non c’era neanche l’elezione diretta degli oltre 70 europarlamentari a Strasburgo che spettano all’Italia. In entrambi i casi si tratta di istituzioni che condividono con Roma una fetta di potere legislativo e garantiscono la rappresentanza dei cittadini a tutti i livelli decisionali.

L’allarme lanciato dai sostenitori del No – Ad esasperare i toni nel dibattito referendario ci ha pensato all’inizio dell’estate Marco Damilano su L’Espresso. In un editoriale pubblicato nel numero di fine giugno del settimanale – interamente dedicato al No – il direttore scrive che il referendum è una “festa della Divisione e della disunità, il trionfo dell’anti-politica“. A suo parere, l’obiettivo è quello di “sgretolare un altro pezzo di quel poco di prestigio che ancora rimane alle Camere”. Il Comitato dei democratici per il No, tra cui compaiono Giorgio Gori e Tommaso Nannicini, sostiene invece che in caso di vittoria del Sì “interi territori (e gli italiani all’estero) saranno privati di propri rappresentanti in Parlamento”. Il portavoce delle Sardine Mattia Santori in un’intervista a Repubblica parla di “rappresentanza mortificata”, mentre l’ex ministra dem Anna Finocchiaroche nel 2008 propose una riduzione dei parlamentari analoga a quella attuale – punta il dito contro la “minaccia al pluralismo“, un tema che fu “una delle ‘ossessioni’ dei costituenti”. Poi ci sono i costituzionalisti per il No, firmatari di un documento sui rischi per i principi fondamentali della Costituzione, secondo cui l’idea che la rappresentanza nazionale “possa essere assorbita” da altri organi elettivi (come il Parlamento europeo o i Consigli regionali) va “contro ogni evidenza storica e contro la giurisprudenza” della Consulta. Basta leggere, spiegano, le materie attribuite dalla Carta al legislatore “per avere un’idea dell’importanza delle Camere”.

La legge del ’63 e la (successiva) nascita dei Consigli regionali – Posto che la rilevanza del Parlamento nel nostro Paese non è in discussione, né rientra tra gli argomenti del dibattito, va ricordato che l’attuale assetto di Montecitorio e Palazzo Madama risale agli anni Sessanta. Prima dell’introduzione della legge costituzionale del 9 febbraio 1963, n. 2, il numero dei parlamentari era variabile. Nella prima legislatura della storia repubblicana (1948-1953), ad esempio, gli eletti erano 915. Ancora meno nella seconda: 827, di cui solo 237 al Senato (numeri non troppo diversi dai 200 previsti in caso di vittoria del Sì). In ogni caso, sia al momento dell’approvazione della Costituzione che della legge del 1963 non era ancora stata prevista la rappresentanza dei cittadini nelle Regioni. Per arrivare all’elezione diretta dei consiglieri bisogna aspettare un’apposita legge del febbraio 1968 voluta dall’allora governo Moro.

Gran parte dei poteri legislativi rimangono per decenni nelle mani del Parlamento, ma con la modifica del Titolo V della Costituzione (poi più volte integrato dalla Consulta) molte competenze vengono affidate alle Regioni. Roma ha la legislazione esclusiva in materia di politica estera e sicurezza, mercati, ordinamento pubblico e cittadinanza, protezione dei confini e tutela dell’ambiente. Poi ci sono le competenze concorrenti tra Stato e territorio (rapporti internazionali, lavoro, istruzione, protezione civile, trasporti, sanità, sistema tributario, comunicazioni) e infine quelle esclusive delle Regioni che comprendono tutto ciò che non viene esplicitamente inserito nelle caselle precedenti. I consiglieri regionali, quindi, assolvono già ad alcune funzioni che in passato erano affidate ai parlamentari. Compito che tra l’altro in alcune Regioni viene retribuito esattamente come a Roma. È il caso della Sicilia, regione a statuto speciale dove fino a pochi anni fa la busta paga base era di oltre 10mila euro netti: praticamente quasi la stessa cifra che arriva ogni mese a un senatore tra indennità di funzione, diaria e rimborsi vari.

I tagli alla politica del 2011 – A introdurre un primo taglio alla rappresentanza (e ai costi della politica) è stato nell’estate del 2011 l’allora ministro del Tesoro Giulio Tremonti, alle prese con una tempesta finanziaria sul nostro Paese che nel giro di pochi mesi avrebbe portato alla caduta dell’ultimo governo Berlusconi. Norme rimaste inattuate per mesi e richiamate da Mario Monti nel 2012 nel famoso decreto sulla spending review. Cosa prevedevano? La riduzione degli oltre 1.100 Consiglieri regionali allora presenti in Italia (da un minimo di 20 per le Regioni più piccole a un massimo di 80 per quelle con una popolazione superiore agli 8 milioni di abitanti), un taglio lineare degli stipendi, il divieto di cumulo delle indennità, l’obbligo di rendicontare i finanziamenti e i propri redditi. Tutte misure all’epoca sollecitate a gran voce da grandi giornali, intellettuali e partiti e pensate con un unico obiettivo: “Porre un argine concreto allo sperpero del denaro pubblico che invece di essere usato per migliorare la res publica spesso è utilizzato come res privata, perdendo di vista il fine della politica”, aveva dichiarato in conferenza stampa l’allora premier Monti. In sostanza la “strada maestra per migliorare il rapporto eletti-elettori e arginare la crescente e preoccupante disaffezione verso la politica”. Anche all’epoca il risparmio ipotizzato non era enorme (un calcolo del Sole24Ore parlava di 64 milioni di euro annui a cui aggiungere un altro centinaio di milioni derivante dalla riduzione dei Consiglieri), ma in pochi – a differenza di oggi – si opposero parlando di vantaggi “irrisori” per le casse pubbliche o di “offesa” alla Costituzione.

Il ruolo del Parlamento europeo – All’orda dei quasi 2mila rappresentanti (nazionali e territoriali) su cui oggi possono contare i cittadini italiani, si sono aggiunti a partire dalla fine degli anni Settanta (1979) anche gli Europarlamentari. Ogni Paese membro dell’Unione europea ne elegge una quota in base alla sua popolazione: all’Italia nell’ultima legislatura ne sono andati 76. Un drappello di eletti che né i padri costituenti, né il governo Moro del ’68 avevano considerato. Anche a loro, infatti, spetta una fetta del potere legislativo. L’Ue ha la competenza esclusiva in materia di unione doganale, politica monetaria e commerciale, mentre concorre con gli Stati per quanto riguarda il mercato interno, le politiche sociali, agricoltura e pesca, ambiente, trasporti, energia, sicurezza, sanità, ricerca, spazio. Senza contare che i trattati comunitari prevedono una serie di fonti normative, come i regolamenti, che si applicano a tutti gli Stati membri senza la necessaria ratifica da parte dei Parlamenti nazionali. Una limitazione della sovranità nazionale permessa – sostiene la Consulta – dall’articolo 11 della Costituzione, secondo cui l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

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